Incontro impossibile

Nei versi di Neruda tradotti da Quasimodo un dialogo poetico tra spiriti

    di Maria Neve Iervolino

Passeggiando per piazza Dante può capitare di essere attratti da un angolo buio e fresco sotto l’arco di quella che una volta era Port’Alba. Un tempo simbolo di bellezza barocca. Oggi il suo portico grigio è emblema di uno splendore passato. Attraversando questo varco, facendo attenzione ai ragazzi del convitto, ad ambulanti con collanine di rame e bracciali intrecciati, è possibile scivolare in una piega nascosta della veste sgargiante di Napoli, meno colorata ma più significativa e ancestrale.

Tutt’intorno molta polvere e cose dimenticate. Si avverte un odore strano vagando in questo squarcio, è appena percettibile al centro della via, più intenso se ci si accosta alle bancarelle delle librerie. Un odore di carte che ininterrottamente brucia. Un sentore di possesso e liberalità, di amori senili e rivoluzioni sanguinose, ma per vedere questo bisogna immergere il viso tra le pagine ed aspirare avidamente. È l’odore della Poesia. Una divinità inutile. Possiede molti volti quante sono le culture che la venerano, in ogni luogo esiste una tradizione che plasma la sua immagine fino a farne un fiore o un guerriero senza ombra. In questa Napoli il suo aspetto è spesso mutato, tanto che oggi pochi o nessuno sono capaci di riconoscerla. I versi che costituivano preghiere o bestemmie erano da lei amate nel medesimo modo, oggi con quelle pagine i commercianti incarterebbero la merce, gli imprenditori si farebbero pulire le scarpe. Adesso la Poesia è introvabile, si nasconde per non farsi strappare in pezzi inanimati da incollare su facce virtuali. Lontana da tutti resiste negli angoli tranquilli di città tumultuose.

È facile farsi condurre da lei: lasciati guidare, lettore, dall’odore e dal suono. Una melodia tenue capace di trasportare presso mare chiaro, una voce chiara di cadenza locale intona versi semplici ricchi di malinconia: eccolo Salvatore Di Giacomo indica le sue raccolte migliori tra quelle azzurre e sbiadite. Sfoglia un libro rosso acceso, sfrontato tra i suoi simili dai colori rimasti vivi nel tempo. Sentirai un frusciare più forte, come una voce roca di corsaro, è quella di Pasolini che vuole distrarti dal poeta della musica, per lui un uomo piccolo e borghese che guarda il golfo con gli occhi alienati, come quei cantori ciechi che per Matilde Serao erano incapaci di vedere oltre il paravento e il mare glauco. Mentre i poeti litigano e i veristi s’intromettono, puoi scappare, ma chi ti salverà da Sandro Penna che si fa gioco dell’amore patetico che un tempo bussò alla tua porta? Amore, gioventù, liete parole... Troverai rifugio nelle tiepide melodie di Pedro Salinas, per sprofondare nel sogno, ingenuo Nerone, alle mercé dell’Erinni di Kavafis.

In un’epoca in cui l’eccesso di poesia ha creato l’assenza della poesia, negli anfratti della più antica città d’Europa troverai simili personaggi per pochi soldi, passati di mano in mano, capitati a te non si sa come. Sotto lampade gialle o bianche, forse getterai la sabbia incastrata tra le pagine, ti chiederai delle gocce salate impresse su pagine che per te non hanno significato. Prima accarezza le sottolineature, i piccoli appunti, le dediche, prova a decifrare le belle o le brutte grafie di chi prima di te ha portato quei versi sul treno o a casa, e che poi se n’è liberato, perché tu potessi leggerli e magari liberarli a tua volta, non prima di aver lasciato il tuo contributo con uno scarabocchio.

In quest’aria rarefatta dal pulviscolo, stanno chiusi in una lenta conversazione due uomini. Non alzano la voce l’uno con l’altro ma parlano quasi all’unisono, le loro voci si confondono. Uno stringe uno scialle di pizzo nero che racchiude arance così grosse e vermiglie, da sembrare grondanti di sangue. L’altro uomo stringe una lettera spiegazzata, recante un addio alla dulcissima mater. L’incontro tra il cileno Pablo Neruda e il siciliano Salvatore Quasimodo è impossibile. Eppure è reale se sei capace di stare dietro ad una dea più antica e vera delle divinità che oggi frequenti, è vero se ti soffermi presso una vecchia bancarella a cercare i versi di Neruda tradotti da Quasimodo.

Quasimodo, già traduttore dei lirici greci, è stato per molte generazioni la voce più originale di Saffo. La traduzione operata sui frammenti da Quasimodo non è mai sterile. La poesia più della prosa richiede sempre un coinvolgimento del traduttore, e quando questi è un poeta a sua volta con l’anima scossa da colori vivi e ricordi della guerra avviene l’irripetibile contatto.

Neruda l’esule, lo stesso dei giochi retorici dell’Ode al carciofo, con i suoi versi dipinge immagini per il lettore che rigo dopo rigo, come colore su colore vede delinearsi un ritratto di donna ferita o di polena vivente, con parole semplici, che non desiderano nascondere ma spogliare. Interpretato da Quasimodo, italiano migrante, della formalità classica, Neruda si ritrova ad accogliere il senso di attesa e in perifrasi spesso usate dal siciliano. Così tra le vie distrutte e il viavai i due viaggiatori si riuniscono per parlare del mare, dell’oceano, e delle madri che aspettano i figli.

 

Lamento per il Sud

[…]

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

[…]

S. Quasimodo

 

Inno e ritorno

Patria mia, patria mia, a te volgo il mio sangue.

Ma t’invoco, come fa con la madre il bambino

pieno di pianto.

Accogli questa chitarra cieca

e questa fronte perduta.

 

Andai a cercarti figli per la terra,

andai a sollevar i caduti col tuo nome di neve,

andai a fare una casa col tuo legno puro,

andai a portare la tua stella a eroi feriti.

[…]

P. Neruda





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