LIBRI Almarina

Il romanzo di Valeria Parrella, finalista dell'ultimo premio Strega

    di Flora Fiume

Nisida si trova a Bagnoli. È un’isola dell’arcipelago flegreo. Vista dal Virgiliano appare come una bella cartolina da luogo romantico. È collegata alla terraferma da un pontile carrabile, ma non accessibile, perché è sede del carcere minorile. Il grande pubblico ha potuto accedervi solo attraverso gli occhi cinematografici di Nanni Loy, con la fortunata e premiata pellicola del 1989, “Scugnizzi”, che ha poi ispirato anche un musical teatrale di Claudio Mattone e Enrico Vaime. Ora è la penna di Valeria Parrella che ci da’ un altro spaccato di quel luogo, legato alla città quasi come con un cordone ombelicale, eppure così lontano per i cittadini. La scrittrice ha avuto la possibilità di accedervi grazie ad un laboratorio di scrittura creativa che ha curato per quattro anni di seguito.

Da quell’esperienza è nato Almarina, il suo ultimo romanzo, edito da Einaudi, finalista al Premio Strega. La sua protagonista è Elisabetta Maiorano: insegna matematica nel carcere minorile di Nisida, dove “del presente non si parla e il futuro non si immagina”, come descrive la stessa Perrella. Nisida appare subito come un posto dimenticato, lontano in una qualche profondità senza tempo, ed è proprio lì che  la Perrella porta i suoi lettori. In un luogo emotivamente e fisicamente così isolato che, una volta affrontate tutte le procedure imposte dalla legge per entrare, i vari riconoscimenti, le aperture e le chiusure di sbarre e cancelli, quando finalmente sei anche tu dentro, in qualche modo smetti di esistere per il mondo e per tutto quello che succede là fuori. Non sei più raggiungibile. Per questo motivo Elisabetta è l’ultima a venire a sapere del marito, e del suo infarto fulminante e senza scampo.

E così si ritrova sola a circa quarant’anni, vedova, senza figli, e con un legame quasi inspiegabile coi ragazzi di Nisida: e non le interessa se per loro non è un’autorità, se viene chiamata ogni giorno in modo diverso. A volte maestra, a volte dottoressa, altre prof., altre ancora “vir’ a chesta”. Anche perché non potrebbe esercitare alcun tipo di autorità o coercizione. Non può mandarli dal preside, né cacciarli via. Paradossalmente, anzi, l’unica cosa che può fare è quasi sperare che restino lì ancora a lungo perché “vederli andare via è la cosa più difficile, perché: dove andranno? Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”. E non vedranno i murales dipinti per loro, non vedranno nella matematica l’aereo che li porterà lontano, non sentiranno mai musica jazz. E allora Elisabetta non si rassegna e si sottopone al controllo e alla schedatura quotidiana e cerca di insegnare qualcosa a quei ragazzi, che dentro di sé un po’ teme, ma di cui è affascinata, con una forma di amore materno che la vita non le ha mai dato il dono di poter sperimentare. Che poi è, in definitiva, lo stesso sentimento che la lega ad una ragazza romena, appena arrivata a Nisida, Almarina, che deciderà di portare con sé, per provare a darsi e a darle una nuova possibilità, nonostante le parole della ragazza. “Non ti prometto niente”.





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