Il canto fa bene alla salute

La leggenda delle sirene. Quando a Napoli si cantava di più...

    di Amedeo Forastiere

La nascita della nostra città è legata alla leggenda di Partenope (in greco antico vergine), sorella di Leucosia e Ligeia. Erano tre bellissime sirene. Con il loro canto incantavano i marinai, che si tuffavano in mare per raggiungerle, e finivano annegati. Nell’Odissea Omero ci racconta che Ulisse fu messo in guardia dalla maga Circe sulla pericolosità del canto magnetico delle tre Sirene. Decise di far tappare a tutti i suoi marinai le orecchie con la cera, per evitare che restassero rapiti dal canto delle Sirene, e la nave andasse a sbattere sugli scogli. Ulisse volle sfidare l’incantevole provocazione. Non si tappò le orecchie, ma si fece legare all’albero della nave. Incuriosito dalla leggenda, voleva vincere l’incanto delle Sirene dalle voci ammaliatrici.

La nave di Ulisse riuscì a superare senza alcun danno la tentazione del canto misterioso.  Le Sirene per la vergogna di aver fallito si lanciarono in mare per suicidarsi. Partenope fu portata dalle onde su gli scogli dell’isolotto di Megaride. Trovata la mattina dopo da alcuni pescatori, la rifocillarono, salvandola. Non avendo ancora un nome, quella parte di mare, Partenope propose ai pescatori di darle il suo. La Sirena portò anche il canto, allora sconosciuto nella nostra terra, la leggenda dice che, il canto sia nato a Napoli, l’antica Partenope.

Leggenda o meno, la nostra città è stata sempre ambasciatrice del bel canto, dove sono nate le più belle canzoni, conosciute in tutto il mondo. Sempre una leggenda, non dell’Odissea, ma popolare, dice che lo straniero che arriva per via mare, appena sbarcato sulla nostra costa, sente una dolce musica accompagnato da un soave canto: lo spirito della Sirena Partenope? Probabilmente si! Noi napoletani siamo molto tradizionalisti, e anche un po’ sognatori: la leggenda spesso la trasformiamo in realtà.

Ricordo, da ragazzo, quando andavo a scuola, passavo per i vicoletti del quartiere Sanità. In queste stradine piccolissime, tra botteghe e bassi, sentivo cantare. Cantava il falegname, l’operaio, il panettiere, il fruttivendolo, la massaia mentre stendeva al sole fuori al suo basso di pochi metri quadri, l’unico lenzuolo. Spesso la minuscola casetta aveva anche funzione di bottega, fuori c’era una piccola bancarella con la merce esposta, caramelle, lecca lecca, biscotti e tante leccornie per i bambini, in tutta questa precarietà, nell’arte dell’arrangiarsi, la massaia cantava. Il ricordo della signora Maria, alla finestra di fronte (un’eccezione, tra donna Carmela, donna Filomena, donna Assuntina) La mia dirimpettaia era la signora Maria. Il ricordo che mi è rimasto di questa donna riservata, madre di quattro figli, moglie di un impiegato del ministero. Il pomeriggio cuciva i guanti a mano, con una precisione dei punti tutti uguali, da mettere in dubbio il più esperto guantaio. La signora Maria cuciva e cantava solo vecchie canzoni italiane, mai una in dialetto. Quel canto creava un’aria serena, gioiosa e di speranza. Oggi la gente non canta più, è difficile sentire qualche venditore richiamare i clienti come si faceva una volta, presentando la merce esposta descrivendone le virtù a voce alta, cantando.

Mancavo da tanti anni dai vicoletti della vera Napoli. I piccoli artigiani sono spariti. I bassi sporchi e fatiscenti con il bucato steso fuori, solo un ricordo del passato. Oggi hanno tutti la lavatrice, l’asciugapanni, la parabola, la porta blindata. Le bancarelle con i lecca lecca e caramelle, sparite. I vecchi bassi sono diventati delle piccole villette. Sentire qualcuno cantare mentre lavora è diventata una rarità. Forse perché la nostra società è così triste da non essere più capace di cantare?

L’atto di cantare mentre si lavora, sembra non essere più qualcosa che ci viene spontaneo, anche se sono solo canzonette, parafrasando il titolo di un brano di Eduardo Bennato. Non è vero che sono solo canzonette, perché una canzone nel breve tempo di quattro minuti circa, può dire tantissime cose. Può parlarci d’amore, di felicità, può dire meglio di qualsiasi altro mezzo il nostro stato d’animo, l’espressione più immediata del valore della gioia di vivere.

In alcuni casi ho sentito bestemmiare, no, questa non è la mia Napoli, mi son detto. Cantare fa bene, molti si vergognano, però. Impariamo ad ascoltare la nostra voce, trasforma l’ansia, ci aiuta a distrarci dalle nostre sensazioni, ad ascoltarci davvero. Usare la voce produce un aumento della consapevolezza corporea e vocale. Allora ritorniamo tutti a cantare, non ci vergogniamo, diceva nel lontano 1230 il teologo poeta musulmano sunnita, Gialal al-Din Rumi: Voglio cantare come cantano gli uccelli, senza preoccuparmi di sapere, che cosa pensano gli altri di me se canti male. Cantate, ragazzi.





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