Quando la Settima Arte sale sul ring

Breve viaggio nei film che fanno a cazzotti: dalla saga di Rocky a Fight Club

    di Mario Vittorio D'Aquino

“Nel cuore Corridoni, nel pugno Carnera” è la citazione di una canzone dei Bronson, una brand rock di nicchia e anticonformista: il primo fu un intellettuale di grandissimo spessore del XIX secolo, di stampo sindacal-rivoluzionario mentre il secondo di spesso aveva il suo braccio e, soprattutto, la sua fisicità che si esprimeva portentosa sul ring. Ebbene sì, Carnera, Primo Carnera, era un pugile italiano naturalizzato statunitense. Soprannominato The Walking Mountain (La montagna che cammina) nel suo score annovera 103 match, di cui 89 vinti e 76 per KO. Un vero e proprio carrarmato e uomo di punta del pugilato italiano e internazionale degli anni ’30. A lui è stato dedicato un film biografico Carnera – The Walking Mountain del 2008 che ripercorre le tappe della carriera dello sportivo. Ma il fighter italo-americano fu anch’egli un attore grazie al suo fisico straordinario, recitando in una ventina di pellicole tra gli anni ’30 e fine ’50.

Un suo contemporaneo e rivale sul quadrato fu James Walter Braddock, il campionissimo newyorkese, riconosciuto dalla International Boxing Hall of Fame come uno dei più abili pugili di sempre. Anche Braddock e la sua storia hanno vissuto momenti di gloria sul grande schermo con l’interpretazione di Russel Crowe nel film diretto da Ron Howard Cinderella Man (L’uomo Cenerentola) soprannome datogli da un cronista, Damon Runyon. I vari ciak del film dipingono la sofferta vita dell’atleta, poiché decise di ritirarsi – seppur momentaneamente – per lavorare al porto, data la scarsa situazione economica familiare dovuta alla crisi del ’29. Un eroe sul ring ma anche una persona volta al sacrificio e all’abnegazione di sé pur di non perdere ciò in cui credeva di più: la sua famiglia.

Di gran lunga, però, il più grande lottatore di sempre è stato Cassius Clay alias Mohammed Alì: una valida figura dentro e fuori al palazzetto, impegnatosi per anni per i diritti civili, il pugile aveva stravolto il metodo di approccio ad un match di boxe, col suo trottolare intorno al quadrato per stancare ed innervosire l’avversario per poi metterlo al tappeto quando esausto. “Muoviti come una farfalla e pungi come un’ape” è l’aforisma da lui stesso inventato, etichettava così la sua tattica di combattimento. Il cinema non poteva non approfittare della sua immagine per produrne un film: Alì (2001, diretto da Micheal Mann) è l’immensa biografia cinematografica del pugile interpretato da un giovane Will Smith in rampa di lancio.

Negli anni la “nobile arte” è stata al centro di desideri di registi e sceneggiatori per l’unicità di far immergere lo spettatore nella sofferenza – soprattutto fisica – del o della protagonista, anche rischiando di cadere talvolta nel luogo comune e nel pregiudizio. L’emblematico film Million Dollar Baby (disponibile su Netflix, diretto da Clint Eastwood nel 2004) è la rappresentazione cinematografica di quanto detto poc’anzi. Una ragazza, Margaret Fitzgerald (Hilary Swank), in età apparentemente avanzata per iniziare una carriera da professionista, si iscrive nella palestra di due ex combattenti e ora coach: Frankie Dunn (proprio Clint Eastwood) e Eddie Dupris (Morgan Freeman). Il ruolo di duro e burbero che poi si lascia trascinare da un’emotività perduta tipica dei personaggi di Eastwood è il cliché che si ripete anche in questo film. Dopo una fervida presa di posizione nel non voler allenare una donna nella sua palestra, tramite il buon mediatore Eddie, Frankie riesce ad accogliere tra le sue grazie Maggie che ben presto diventerà una combattente super. Nel film sono presenti spezzoni molto crudi che, però, cadono nel pregiudizio e nella cattiva percezione che aleggia intorno al pugilato, se pensiamo al frangente in cui la protagonista si frattura il setto nasale dopo un colpo diretto dell’avversaria e il coach Frankie glielo aggiusta in tempi record. Questo sport grida vendetta per un’immagine che lo ha rimesso – agli occhi della critica – al centro di critiche e retaggi ormai antiquati e abbondantemente superati. Lo stesso possiamo dire del finale che lascia tutti sorpresi.

Il rapporto tra boxe e cinema raggiunge il culmine con la famosissima saga di Rocky Balboa. La figura di Rocky (Sylvester Stallone) è la rappresentazione di un pugile di un quartiere malfamato di Philadelphia semplice, genuino che ha problemi di socializzazione data la sua inadeguatezza culturale ma al tempo stesso che riesce ad esprimere tutto il suo potenziale con i suoi pugni e le sue prestazioni, vivendo moti di rivalsa altissimi. Nei diversi capitoli la qualità della storia e delle sfide che il protagonista deve affrontare perde un po’ di smalto ma ciononostante non si possono definire come scadenti, tutt’altro. Emblematico è il suo discorso nel IV capitolo riguardo la combutta USA/URSS e il suo urlo “Adriana!” scimmiottato e replicato tante volte in tv e sul web, come storica è la musichetta che accompagna il pugile nei suoi allenamenti spartani: Gonna Fly Now. Un’ottima accoglienza dalla critica l’hanno ricevuta anche gli spin–off Creed I e Creed II in cui Sylvester Stallone mette i guantoni al chiodo e si cala nelle vesti di preparatore atletico del figlio illegittimo di Apollo Creed, interpretato da Michael B. Jordan, Adonis Johnson detto “Donnie”, dimostrando come il marchio Rocky Balboa sia, dopo più di quarantacinque anni dalla prima uscita, ancora vincente, tanto da essere esposta una statua sulla cima della scalata principale di Philadelphia che l’attore percorreva tutte d’un fiato dopo la corsetta tra strade e mercati della città.

Una pellicola più di nicchia e poco conosciuta è Warrior. Cambiamo geometria del ring: dal quadrato del pugilato passiamo all’esagono della MMA (arti marziali miste) ma non regredisce la voglia dei protagonisti di uscire vincitori dopo la lotta. Il film del 2011 disponibile su Netflix vede come protagonisti due fratelli fighter: un professore liceale Brendan Conlon (Joel Edgerton), sposato con figli e un ex Marines Thomas “Tommy” Conlon (un promettente Tom Hardy) che ha dovuto rinunciare alla carriera da lottatore per via dei malanni della madre. Il padre Paddy (Nick Nolte), un perenne alcolizzato, cerca disperatamente di ricucire un rapporto slacciato e lacerato da tempo tra i tre. Ma si sa, un vetro rotto, seppure lo si aggiusta, rimane sempre scheggiato. Intanto Brendan e Tommy si fiondano su un torneo agonistico di MMA con in palio un milione di dollari e l’onore di dimostrare al padre il vincitore della rivalità fratricida…

Il pugno, la lotta, l’agonismo hanno sempre spinto i cineasti a creare pellicole insolite, spesso incomprese all’epoca in cui sono uscite: un esempio è Fight Club (1999) diretto da David Fincher ispirato dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk che negli ultimi anni sta riscoprendo una seconda giovinezza, una meritata trasformazione mediatica da brutto anatroccolo a bellissimo cigno. Il film non è solo un circolo clandestino in cui vigono regole dure per uomini frustrati dalla vita ma anche una perversione e un netto rifiuto alla vita capitalistica e borghese. Preso di mira dalla critica, vincerà un solo Oscar per il sonoro. Ma probabilmente è meglio così, Fight Club non può avere considerazioni miste, grigie. Fight Club è bianco o nero, lo si ama o lo si odia.





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