Posteggia trillante

Nella chiesa di S. Croce al Mercato, l'omaggio alla napoletanità di commentatori e musici

    di Umberto Franzese

I “posteggiatori” sono gli ultimi eredi di una tradizione di giullari, trovatori e menestrelli trasferitisi dalle corti e dai palazzi alle vie e alle piazze e che a Napoli hanno assunto spesso, nel tempo, forme e modi popolari diversi, dal “concertino” d’amore al “pazzariello”, imbonitore di vini e mercanzie. Ma sempre la “posteggia” nella sua espressione ha rappresentato un modo tra i più autentici di dar voce e fama alla canzone napoletana.

Nell’ottobre del 1972, in “Le voci parlanti”, sul palchetto del Teatro dei Sordi e tra il pubblico, un complesso di posteggiatori tra i quali eccelleva Giorgio Schottler, dalla voce finissima e chiara, la “chitarra” Alfonso D’Andrea e il “mandolino” Antonio Baldini. Era, come lo descriveva Franco De Ciuceis, uno spettacolo colto e insieme popolare, raffinato, semplice, una serata di squisita napoletanità, che offre, talvolta, con accenni commossi, il meglio delle più celebri pagine del repertorio canoro e musicale napoletano.

Il meglio della posteggia, che ha avuto profondi conoscitori nei “consulenti”, negli esperti, negli specialisti, i commentatori Pietro Lignola, Franco Lista, Giulio Mendozza, è stato proposto dal complesso di Mastromasiello Mandolino. Commentatori e musici, sotto l’attenta e spigliata conduzione di Laura Bufano, in “Trillante, trocola e uosso ‘e presutto, una spremuta di filosofia spicciola tra musica e dintorni”, hanno costruito con maestria uno spettacolo entusiasmante in omaggio all’arte, al teatro, alla musica, imperniato, tra l’altro su testi fini e garbati di Gianna Caiazzo interpretati con raffinatezza da Anna Donato. Nella Chiesa di S. Croce al Mercato, nel pieno dei festeggiamenti in onore della Madonna del Carmine, la napoletanità più autentica tradotta in scena, in concerto, in recital, in varietà, fa vistosamente, magnificamente, spettacolo.

Quella  “napoletanità”, che fa dire a Pietro Lignola, che è tale se “conserva gelosamente il piacere di vivere, il culto della famiglia, il riconoscimento dell’amicizia, la difesa di abitudini e tradizioni millenarie. Il napoletano non recita soltanto sul palcoscenico, ma anche nella vita di tutti i giorni”.

‘O vvi’, ‘e strate ‘e Napule cheste so’, nu palcoscenico. Una città, Napoli, che pur nella mutevolezza, ha espresso la sua vitalità, la sua prorompente humanitas. Per accertare quanto di questa humanitas ancora resiste, forte è il desiderio di quanti, in nessun modo, intendono archiviare antichi valori.

Lievito fermentante di quanto resta delle nostre ricchezze, delle nostre bellezze, della cultura, dell’ arte, dello spettacolo, è la riconferma della nostra identità, a cominciare dalla nostra bella lingua napoletana. Se una società si corrompe per prima s’imputridisce il linguaggio. A ciò contribuisce l’uso spropositato degli inglesismi. La napoletanità dura se e fino a quando dureranno le tradizioni, le arti, il colore locale, le feste, l’amore per le cose nostre e non quelle non nostre che servono soltanto a imbastardirci, a renderci servi di modi di fare, di espressioni, linguaggi d’importazione. 





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