Le epidemie non finiscono mai

A ritroso nella storia tra peste e morbi affini

    di Maria Regina De Luca

La scomparsa di intere città e civiltà della storia del mondo non è stata sempre effetto di moti tellurici o di cataclismi climatici, ma anche da morbi tenaci. La letteratura ne ha raccolto testimonianze, trasmettendo la consapevolezza della fragilità dell’essere umano che, se come "genere" resiste a cento insidie fin dalla creazione del mondo, come singolo può venir stroncato in un attimo da un microbo quasi invisibile, ma capace di risvegliarsi periodicamente più virulento che mai. Tra le varie epidemie, largo spazio nella letteratura di tutti i tempi ha occupato la peste e una delle fonti letterarie più illustri è La guerra del Peloponneso di Tucidide, vissuto nel V secolo a.C, storico, filosofo e scrittore di vasto e moderno pensiero. Secondo le antiche tradizioni popolari, infatti, le epidemie scoppiavano e si diffondevano per volere divino contro le malefatte pubbliche e private dell’umanità, ma Tucidide non accetta le superstizioni che rendono il morbo una invincibile fatalità. Per il poeta, il rapporto affettivo e l’assistenza reciproca sono altrettante armi contro la malattia, e lo stesso concetto percorre la linea di pensiero di Virgilio che, nel III libro delle Georgiche, descrive gli animali come prede innocenti, insieme alla natura, di un morbo che non si pone fini salvifici o punitivi. Ancor più spregiudicato è il Boccaccio che, nel suo capolavoro, descrive la peste di Firenze del 1348 come qualcosa dalla quale fuggire per ricreare, nella bellezza della natura, un mondo che mantenga ancora le sue promesse di piacere e di gioia. I comportamenti delle vittime sono diversi secondo l’indole e i tempi e all’epidemia di peste che colpì Napoli nel 1656 decimandone la popolazione, dai lazzari ai grandi artisti che in quei tempi affollavano la città, il popolo oppose l’ampolla del sangue di San Gennaro, perché solo il santo protettore  avrebbe potuto compiere il miracolo di arrestarla. La peste ebbe fine, ma quel tocco di religiosità e di speranza che animò il popolo di Napoli è forse preferibile allo scetticismo, all’inaridimento dello spirito di carità e di civiltà verificatosi durante la peste del 1947 a Orano sulla costa algerina, descritta da Camus.  Il terribile male non rinvigorì la fede nel popolo, ma generò una sorta di astio reciproco che giunse a evitare ogni contatto tra i superstiti e ad abolire i riti funebri, aggiungendo alla devastazione del morbo quella procurata dagli incendi appiccati per fermare, illusoriamente, la diffusione dell’epidemia.

La peste più conosciuta, perché ancora letta nelle scuole di buona volontà, è certamente quella di Milano descritta da Manzoni nei Promessi sposi. L’autore la colloca quasi alla fine del suo romanzo, tappa fondamentale nelle complesse vicenda dei personaggi. La descrizione è dolente, disperata a tratti, ma la Provvidenza la percorre come un’ala salvifica che manterrà le sue promesse nel bene e nel male che non è solo punizione, ma riscatto e assoluzione e non crea scetticismo e odio, ma voglia di collaborazione e di aiuto, di solidarietà e di sostegno reciproco.

Non si può dimenticare la più affascinante delle descrizioni di un’epidemia, chiamata peste solo allegoricamente, per la rapidità di diffusione del contagio. Chi ha letto il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, lo scrittore colombiano che negli anni Sessanta compose la maggior pare dei suoi splendidi libri, la peste di Cent’anni di solitudine è ben diversa. I suoi effetti non sono quelli terribili descritti da Manzoni o da Virgilio, ma una sorta di metamorfosi che rendeva l’uomo altro da sé e dal mondo, perduto in un oblio dove era impossibile riconoscere e riconoscersi in quanto lo circondava. Perduto nella nebbia, l’uomo deve catalogare gli oggetti finchè è ancora in tempo, segnandone i nomi e l’uso: è indimenticabile il cartellino apposto alla mucca, "da mungere per fare il latte col quale fare il caffelatte".

Molte malattie epidemiche, ritenute debellate per effetto dei vaccini e dei ritrovati della medicina contemporanea, ogni tanto ritornano. Gli effetti sulla popolazione sono di vario tipo, e l’isolamento, l’allontanamento dai luoghi affollati, la paura del contagio non sono diversi da quelli dei tempi passati. Convivono nella popolazione lo scetticismo, la paura, il bisogno di aiuto e il rifiuto dei contatti, e anche una certa "superstizione" molto contemporanea: che il male non sia stato mandato dall’alto a punire l’uomo, ma che sia stato diffuso  perché la popolazione ricorra ai rimedi, tra i quali eccelle la "vaccinazione". Quanto sia in alto questo mandante non si sa. Non ci permettiamo commenti, ma si vocifera in certi ambienti che l’altezza dipenda dal piano dei grandi edifici dove hanno sede le più importanti case farmaceutiche della nostra spesso incivile civiltà.





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