Miracolo del cinema e di San Giovanni

Reportage di Aldo De Francesco dal set del film Due euro l'ora

    di Aldo de Francesco

Avevo in animo da tempo di scrivere questo pezzo, da metà settembre, dal giorno dopo che la bella gente del cinema è entrata, per la prima volta, nel mio paese, a Montemarano, per girare il film “Due euro l’ora”,  invadendolo allegramente, come i giovani missionari di un tempo. Stavolta però laici: non predicatori ma attori, portatori di altri linguaggi. Appena mi accingevo a scriverlo, mi bloccava un dubbio, prima inspiegabile, poi chiarito. Quasi me ne mancasse la voglia. Tutta colpa di sensazioni che sentivo addensarsi,  troppe, per governarle e non rischiare un ingorgo indescrivibile: cadendo così nella trappola dei luoghi comuni, sempre in agguato in circostanze del genere, quando il racconto del fatale contrasto di un troupe con un paese - il paese - rischia di ridursi a uno scontato inventario  tra un prima e un dopo.  Poi la visita imprevista al set, trasferitosi in campagna, in una vecchia fabbrica di Chianzano, contrada “felix” di Montemarano, nel maglificio dell’operosa famiglia Fede da me raggiunto lungo una mulattiera, grazie a una serie di informazioni lampo dai toni rassicuranti: “Jati, stanno cchiù nnandi”, è servita a riordinare le mie sensazioni. Oltre a darmi l’opportunità di ritrovare natura e paesaggio, in cui riconosco la mia profonda identità, di ricordare anche la indimenticabile, giudiziosa matriarca della fabbrica, Adelina Fede, la visita mi ha offerto un scenario inatteso, mutando in meglio il mio umore, in mezzo a decine di comparse schierate nel cortile mentre altri dentro la fabbrica apparecchiavano decisive scene.

Un clima di atmosfera avvolgente, di cordiale disciplina da farmi poter dire che il set è davvero una stupenda esperienza di vita e di rapporti. Quest’atmosfera ideale mi ha consentito di salutare e di vedere in campo attentamente più di qualche amico, coglierne aspetti sconosciuti; mi riferisco, in particolare, al regista Andrea D’Ambrosio, caro olimpico sacerdote nella sua monumentale postura, a Maurizio Fiume, travolgente produttore esecutivo, degno del nome che porta, pronto a esondare dall’alba al tramonto, dal sorriso agrodolce che muta d’un tratto da giocoso a severo, alla sorprendente Alessandra Mascarucci che interpreta Rosa, a Peppe Servillo, goduto da lontano, scrutandone  la rugosità sorridente , il volto asciutto da scultura rupestre, a Chiara Baffi, protagonista del film nei panni di Gladys, attrice d’intensa espressività, destinata a cose egregie. Sono entrato così in un affresco vitale, che mi è servito anche per un ulteriore riscontro della straordinaria duttilità scenica dei “germani” Servillo, capaci con Tony di moltiplicarsi, interpretare un magistrale Joe Gambardella, il personaggio della Roma della “Grande bellezza”,  del cinico, epicureo  circo mondano e con Peppe,  nel film  “Due euro l’ora” mutare una pasta di uomo nella vita, in perfido e irritante datore di lavoro nella finzione. Gente, per intenderci, di una carica carismatica mediterranea, di intensa mimica  facciale, degna delle antiche favole atellane e di un vincente confronto con la maschera di Eduardo . Se la mia visita fosse avvenuta in paese, imboscato e risucchiato dalla folla dei miei concittadini, giustamente ma pacatamente, incuriositi nel seguire i ciak, non avrei mai provato l’atmosfera intensa di questo impatto bucolico, locale e globale. In particolare a Chianzano, una volta “grancia”, borgo longobardo nel cuore antico dell’oro bianco e rosso della mia terra, in un settembre bellissimo, tra trionfanti e gonfi festoni di viti, dove non v’è paesaggio più armonico, più accordato  di questo tra “cinema e campagna”. Da una parte la finzione fantastica, il trucco artistico, la fantasia sognante, senza freni, un romanzo della vita fermato e riproposto alla considerazione collettiva; dall’altra il romanzo della natura con la sua limpida opulenza autunnale, che si dona, matura, lascia filtrare tra le foglie e i tralci,  pigne di coda di volpe e di fiano, e una robusta nidiata di aglianico, esposta all’ultima tintarella prima di diventare vino. Scene evocanti lampi narrativi da langhe, da solisti leggendari come Pavese, Fenoglio e Laiolo, appena lo sguardo spazia dalle balze del Calore alle dirimpettaie colline di Paternopoli e di Castelfranci. 

Cinema e paesi dell’anima, un felice accordo che mi fa pensare a due nostri lontani profeti inascoltati, Camillo Marino e Giacomino d’Onofrio, cineasti irripetibili, intellettuali autentici, fondatori del festival del Cinema neorealista “Laceno d’ Oro”, i primi a puntare, in anni proibitivi, gli anni Sessanta, su un’armoniosa  sinergia  portando quassù Zavattini, Pasolini, Lizzani, Pontecorvo, maestri sovrani. Che tristezza notare oggi dalle nostre parti assenze prestigiose, diffuse smemoratezze e assistere invece alla proliferazione di  kermesse “regionali” inutili e senz’anima, copertine senza capitoli. Cultura maccheronica, ingannatrice.  Cerco di sentire commenti, qualche giudizio, sui “missionari laici”, tutti esaltanti, addirittura trascurabili di fronte all’intreccio crescente e fantastico di solide amicizie, createsi tra ospiti e ospitanti e che promettono di continuare dopo la fine dei ciak, con puntate a tempo indeterminato. Diavoli di montemaranesi, abituati al danzante clamore del Carnevale, li ho trovati molto ubbidienti sul set:  contemplano, studiano,  sanno che davanti a una macchina da presa si deve ballare, paradossalmente, stando fermi. Comunque fremono, statene certi e appena ci sarà una buona occasione piazzeranno un frammento  della  “colonna sonora” della nostra vita, dei nostri remoti innesti dionisiaci, la tarantella, in uno snodo  giusto del film, che Andrea,  il regista olimpico, sicuramente si inventerà.

Intanto lo spirito dei luoghi, in questa valle delle “vigne del Signore” riemerge sempre più denso di  memorie antiche, un antico che il film in lavorazione, “Due euro l’ora”, prodotto da Enzo Porcelli per l’Achab Film, attraverso una trama che parla di lavoro fondato sull’ auspicio di una sua totale e conquistata dignità, lega fortemente al presente.  Un “motivo antico” che risale al medioevo, ai tempi in cui un umile ma “rivoluzionario” santo del luogo, Giovanni da Montemarano  ammonì i potenti e incoraggiò la gente, ancora senza diritti,  gravata da arbitri e soprusi, a prendere coscienza che il lavoro andava remunerato e comunque saldato anche con una rotonda bevuta  di vino. Era il verbo quotidiano del monachesimo evangelizzatore, di cui quaggiù, nel vicino generoso Baiardo, lo provarono una decina di operai, intenti a dissodare i campi, rimasti senz’acqua sotto il sole rovente, che ebbero ristoro dalla supplica di un vescovo santo e mite che mutò caraffe di acqua del fiume in un salvifico vino. Altrove, a Montefiascone, per il vino “Est Est Est”, scoperto da uno scudiero mandato in ricognizione da un cardinale, al quale lo segnalò come da intesa con tre “Est” per dire che ve n’era in abbondanza ed anche di eccellente, è fiorita una vasta letteratura. Senza suscitare gelose comparazioni, a Montemarano, dove il vino da secoli è nettare delle “vigne benedette dal Signore”, quando ci decideremo a porre al Baiardo, luogo del miracolo, una stele che ricordi l’alto valore sociale e la simbologia religiosa di quel prodigio, dimostratosi profetico per la vocazione del territorio? Cari vinificatori uscite dalle vostre nicchie, non sfidate soltanto il domestico “viento ’e cimma”.  Dicevo all’inizio di non volermi avventurare in uno scontato inventario tra un prima e un dopo di un luogo caro. Dicevo, ma a volte certi messaggi fanno correre questo rischio: il film “Due euro l’ora” incentrato sul lavoro e sull’amore,  con il set a pochi passi da dove il nostro patrono e vescovo santo parlò coraggiosamente, in tempi bui, della dignità del lavoro, mi pare proprio che ci spinga a doverlo correre.  Ci proviamo? Vi piace?





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