Testimonial pericolosi

Il loro ruolo nella pubblicità

    di Silvio Fabris

Testimone: colui che con la propria parola su avvenimenti che ha visto o provato, è responsabile del verdetto di colpevolezza o innocenza dell’imputato. Così per la legge e così nella pubblicità; se il “testimonial” (il termine inglese fa sempre più effetto a noi italiani) dice che “quel” sapone lascia la pelle più morbida degli altri, se preferisce un detersivo micro anziché due fustoni omaggio, vuol dire che quel sapone e quel detersivo sono veramente ciò che di meglio possa esistere sul mercato. Anche se il nostro primo impulso è di assuefazione a personaggi più o meno noti, inspiegabilmente le vendite aumentano sensibilmente.

Perché il testimonial attira all’acquisto? Per un processo di identificazione, due sono le classi in cui si divide l’identificazione che il pubblico trova nella pubblicità: il divismo e la categoria di appartenenza o di lavoro, come affermava anni fa il noto semiologo Ruggero Eugeni. Il divo, nell’immaginario collettivo, è la perfezione, il sogno irraggiungibile. Utilizzando, il prodotto da questo pubblicizzato, si innesca un meccanismo di emulazione per cui ci si sente un po’ più simili a lui. La categoria di appartenenza è più vicina al quotidiano, il testimonial anonimo diventa personaggio in quanto appartenente ad una determinata categoria: ad esempio, il pilota che prova un nuovo modello d’auto, il dentista che usi un certo dentifricio, la casalinga che, con un nuovo detersivo, si libera dalla frustrazione dei lavori domestici e trova tempo per pensare a sé, sono persone delle quali ci si può fidare perché sono uguali a noi e quindi l’identificazione è immediata. In questo calderone di visi e personaggi più o meno noti, chi ci perde è proprio il pubblicitario. Come disse una volta il noto pubblicitario Gavino Sanna: tante ore di lavoro e poi il merito se lo prendono i testimonial. Cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi anni, una pubblicità sempre più ristretta ed arida, giocata intorno ad un personaggio, o c’è speranza per la creatività?





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