Reportage. Viaggio al termine dell'Irlanda

Tra guinness e murales, note e riflessioni sullo spirito irlandese

    di Mario Paciolla

Seduto, in una delle vie principali di Galway, un piccolo sobborgo colorato che si adagia nell’Oceano sulla costa sud-occidentale dell’Irlanda, gusto per l’ultima volta il sapore crudo e dolce di una Guinness. Ascolto le rauche risate, i grossi colpi battuti come schioppettate sulle spalle e i numerosi brindisi levati al cielo di Erin, e sembra quasi che Kenneth, Fion e Jack, tre omaccioni dai tipici tratti britannici, seduti accanto al mio tavolino, si conoscano da sempre. Incuriosito da questo loro modo di scherzare e stare insieme, come vecchi orsi all’ultima cena prima del sonno invernale, gli chiedo se in realtà si conoscono da parecchio tempo. La risposta è negativa e la cosa non mi sorprende per niente. Già mi ero imbattuto nella famosa cordialità irlandese, nei pub, nelle birrerie dove, riuniti a festa, le persone trovano il minimo pretesto per far conversazione o semplicemente augurarsi buona fortuna, così per passare allegramente una serata in compagnia. La cosa mi lascia perplesso quando chiedo a ciascuno di loro da quale città provengano: Galway, Dublino e Belfast. Tre nomi che consultando una cartina geografica possono sembrar vicini: le prime due in Irlanda, la terza in Irlanda del Nord. Prima di giungere a Galway ero stato infatti sia a Dublino sia a Belfast, due città invece lontanissime dal punto di vista politico-religioso, che hanno rappresentato nel corso della belligerante storia di questa terra, i due poli para-militari di maggior spicco e tra le quali s’è innalzata una cortina di ferro eretta dall’ideologia e dalla fede religiosa che ha contraddistinto le diverse posizioni: la prima cattolica, la seconda protestante. Entrambe, sorelle di sangue, portano ancora i segni di una battaglia decennale e le statue che si possono incontrare percorrendo le vie che s’intersecano nei centri rappresentano fieramente i nomi dei personaggi che hanno fatto la storia, sottolineando il carattere orgoglioso e patriottico di questo popolo: da Joyce, che tanto decantò il bigottismo cieco della gente di Dublino, passando per Yeats, poeta, drammaturgo e mistico, sino ad arrivare a Wilde, che probabilmente, chiuso dal rigore morale di un paese che ha sofferto l’ombra cupa e mesta dell’ideologia religiosa, si recò in Inghilterra per dar sfogo alla sua parsimoniosa vita estetica quotidiana. Senza però dimenticare O’Connell, Parnell e Sands, figure che hanno perduto la loro battaglia, ma che hanno spianato la strada alle generazioni future. Mentre Dublino dimostra di essere al passo coi tempi, una piccola metropoli che pullula di giovani cordiali, che dimostra anche una buona integrazione eterogenea di persone provenienti da diverse parti del mondo e sprizza effervescenza da tutti i pori, l’aria che si respira in Ulster è decisamente più pesante, i tratti e le movenze delle persone stesse più duri e freddi, ma non per questo meno gentili.

 

Le cicatrici di questa regione sono ben più visibili se si percorrono le Falls road e Shankill road, nella capitale, dove i murales dipinti sulle mura, contengono forti immagini di grande pregnanza sia politica che ideologica, avvicinandoli semmai come popolo, ad una discendenza deviata d’ispano-americani. A Derry inoltre, un piccolo centro situato nel nord, un altro grande murales si staglia alle soglie delle cinta murarie che circondano il centro: “Welcome in free Derry”. La cittadina è diventata tristemente famosa per uno degli episodi più emblematici della storia moderna di questo giovane paese: il “Sunday, Blooday, Sunday”, quando, la domenica del 30 gennaio 1972, l’esercito del Regno Unito sparò ai partecipanti di una manifestazione pacifica per l’indipendenza della regione, uccidendo ben quattordici persone. L’episodio divenne fonte d’ispirazione per gli U2, uno dei gruppi irlandesi di maggior rappresentanza nel mondo, i quali così cantarono durante un loro concerto a Belfast nel 1982, scandendo la protesta contro le guerriglie e promettendo di non suonare mai più il pezzo, se a loro, il fiero popolo irlandese riunito sotto la stessa bandiera, non fosse piaciuto: “la battaglia è appena iniziata./ La trincea è scavata nei nostri cuori/ e madri, bambini, fratelli, sorelle giacciono lacerati./ Domenica, sanguinosa domenica./   Uniti stanotte possiamo essere uno solo.” Gli U2 sono di Dublino.

Seduto, tra le note che ciondolano nella calorosa aria autunnale di Galway, questi tre uomini, seduti l’uno accanto all’altro, sono forse la prova che i fratelli di Erin si sono finalmente riabbracciati. Mi alzo, sto per andarmene e uno di loro mi ferma, quasi a volermi confidare un segreto. Mi stringe la mano e un po’ brillo sorridendo, con un tipico accento nordirlandese mi augura: “Good luck, boy!”.

 

Raccolto quest’ultimo tesoro d’Irlanda mi accingo l’indomani a tornare a casa, nel paese dei fratelli cantati da Mameli. Giunto a Roma, col sorriso verde ancora stampato sul viso, mi avvicino al conducente del bus. Domandatogli l’orario mi chiede, con un grasso accento romanaccio: “Ahò, de dove sei? Der Norde?”. Ingenuamente gli rispondo: “No, sono di Napoli” e lui mi fa: “Eee… appunto! Der Nordafrica!”.

Mi giro. Dietro le mie spalle c’è un cartello con su scritto: “Aeroporto di Roma Ciampino” e sotto: “ Welcome in Italy”.





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