Quei sette giorni nel deserto: peggio del mare
Seconda parte dell'intervista ad Abdullahi Ahmed, ventinovenne fuggito dalla Somalia
di Roberto Rosano
Abdullahi Ahmed, ventinovenne fuggito dalla Somalia, si racconta. L'infanzia, le speranze, le tensioni politiche che smembrano casa sua. E poi quel viaggio «stipato insieme ad altre trentanove persone su una misera barca di legno, di notte, attraverso il Mediterraneo». Ecco la seconda parte dell'intervista.
Abdullahi, sii a tuo agio, raccontami serenamente la tua vita ed il tuo viaggio. Da questo momento, se ti fa piacere, ci daremo del tu, come si conviene tra amici. Va bene? Quando sei arrivato in Italia, che titolo di studio avevi?
«Avevo un diploma di scuola superiore. In Somalia le scuole sono private, perciò occorre pagare e i miei genitori, con i loro sacrifici, mi hanno permesso di farlo. Molti dei miei amici non hanno avuto questa possibilità, per cui non sono riusciti a studiare e, a causa della loro scarsa istruzione, sono stati sfruttati dai signori della guerra, dagli estremisti dei governi corrotti...»
Quindi la tua famiglia non era in condizioni così disagiate, almeno dal punto di vista economico...
«No la mia famiglia, diciamo, viveva tranquillamente. Il pane non mancava grazie ad un camion con cui trasportavamo merci da Mogadiscio ai villaggi e alle città sperdute. I pastori dovevano ricevere olio, farina... Mio padre aveva comprato questa gigantesca macchina quando c’era il governo di Siad Barre, allora si poteva ancora fare qualche investimento».
Hai fratelli?
«Sette fratelli. Due studiano in Turchia. Hanno studiato scienze infermieristiche e architettura. Io pago per loro gli studi».
Come passavate il tempo quando non si studiava?
«Ogni tanto organizzavamo tornei di calcio. Così riuscivamo a coinvolgere anche ragazzi di altri quartieri, altri clan».
I genitori impedivano ai figli di avere rapporti con ragazzi di entità tribali differenti, è così?
«Sì, i genitori erano contrari, ma noi riuscivamo comunque ad evadere gli obblighi di appartenenza tribale attraverso il calcio».
Tra i clan la differenze erano solo parentali o anche linguistiche, tradizionali, religiose?
«In sostanza, non c’erano differenze religiose. L’unica religione era l’Islam, sunnita, per l’esattezza. La lingua era la stessa, a parte qualche dialetto nel profondo nord. Per esempio Gibuti, per le sue differenze culturali e linguistiche, è diventato uno Stato indipendente. La Somalia britannica, per esempio, anch’essa vorrebbe l’indipendenza, da loro non c’è la guerra. Solo noi del sud, diciamo, della Somalia italiana... I somali non dovrebbero essere poveri, abbiamo chilometri e chilometri di costa, che cazzo fanno la guerra!»
Be’, la Somalia sorge sulle vestigia, almeno così si dice, della ricchissima, leggendaria, Terra di Punt, da cui nella Bibbia si legge che Re Salomone avrebbe tratto gran parte dell’oro e delle pietre preziose con cui ha ornato il Tempio di Gerusalemme...
«Questa non l’ho mai sentita. C’è anche il petrolio in Somalia, che non è mai stato sfruttato, per fortuna. Tant’è che il Kenia rivendica cento chilometri del profondo sud somalo».
Abdullahi, ma cos’è che ti convince a partire? Qual è il momento in cui prendi questa decisione?
«Diciamo che la guerra in Somalia è sempre stata una guerra tra somali. Alla fine del 2006 la Corte Islamica viene interdetta dall’Etiopia, con l’aiuto degli Stati Uniti d’America. Gli etiopi, storici nemici della Somalia, erano convinti che all’interno della Corte vi fossero spinte contro il loro Paese, che aveva annesso alcuni territori di sovranità somala. Le truppe etiopi hanno fatto delle stragi, uccidevano come niente, non guardavano in faccia a nessuno. A diciannove anni, quando ho visto entrare anche i soldati etiopi a Mogadiscio, mi sono detto basta, vado via».
Hai perso qualcuno nella guerra civile, Abdullahi?
«Credimi, quando c’è una guerra è impossibile non perdere qualcuno, ma scusa, questo non ho voglia di raccontarlo».
Arriviamo al viaggio. Prendi la decisione di partire...
«Nel 2007 io non usavo i social network, non avevo informazioni sui rischi. Pensavo occorressero un paio di mesi per arrivare in Italia. C’ho messo sette mesi, invece».
Quanti Paesi hai attraversato?
«Prima l’Etiopia, poi il Sudan, il deserto, la Libia ed il Mediterraneo. Poi sono arrivato a Lampedusa e a Torino. A me sarebbe piaciuto prendere un aereo dalla Somalia per arrivare in Italia, ma non è stato possibile. Non è possibile. Chi scappa dalla guerra, siriana, irachena, somala, eritrea, non ha la possibilità di venire in Europa con un viaggio sicuro. Perciò la gente deve affidarsi a gruppi criminali, che non rispettano i diritti umani e che sfruttano la miseria».
Come hai organizzato questo viaggio? Con chi hai parlato?
«Sono partito di mia iniziativa, appena arrivato in Etiopia ho contattato un mio connazionale, perché funziona così, non è che uno prende e parte così...»
Chi sono queste persone, Abdullahi, non puoi spiegare più precisamente come è organizzato questo tour infernale attraverso il deserto?
«Devo dire una cosa importante, si parla tanto degli scafisti, oggi si arrestano gli scafisti. Parliamoci chiaro, i gruppi che organizzano i viaggi approfittano di una mancanza di alternativa della quale il primo responsabile è l’Occidente. Io ero disposto a pagare il mio biglietto aereo se fosse stato possibile. Lo scafista che ha guidato il mio barcone era un uomo come me, con gli stessi buoni propositi, tant’è che si è rifatto una vita ed ha ottenuto la cittadinanza nel 2008. Adesso, si arrestano gli scafisti, un’assurdità! Un’ipocrisia! Le persone a cui invece abbiamo dato i soldi sono lì a goderseli, indisturbati...»
Sì, questo è chiaro. Ti pregherei di spiegarmi meglio come è organizzato questo “viaggio della speranza”. Con chi hai parlato? Questo tuo connazionale, chi era?
«Ti sto dicendo, a monte...»
Abdullahi, questo si è capito. Ti sto chiedendo...
«No, secondo me non è ancora chiaro. Oggi nel mondo c’è chi ha il diritto di viaggiare e chi non ce l’ha. Con il passaporto italiano possiamo andare ovunque, volendo, stasera, domani mattina. Non ci sono confini. Con il passaporto somalo, eritreo, siriano, purtroppo si possono visitare meno di trenta Paesi».
Sì, ma la domanda era: come si prendono contatti con le organizzazioni criminali?
«Tramite i nostri connazionali. I somali parlano con un somalo, gli eritrei con un eritreo... Questi agganci si trovano in Libia, in Turchia, anche in Italia, eh... Ho contattato questa persona, con questo intermediario, ho pagato una quota per andare in Sudan, dove poi mi sono messo in contatto con un altro intermediario che mi ha avviato al viaggio nel deserto. Il deserto è la parte più difficile del viaggio, non il mare, eh... Il deserto».
Quanti giorni sei stato nel deserto?
«Sette giorni. Eravamo quaranta persone con due macchine, due pickup. Se ci fosse stato un guasto o qualsiasi problema non avremmo potuto chiedere soccorso a nessuno».
Sareste stati spacciati...
«Assolutamente! Nessuno sa quanti sono morti nel deserto. Nel mare sappiamo che sono stati circa 20000 persone negli ultimi vent’anni, ma non sappiamo quanti sono morti nelle carceri libiche e nel deserto del Sahara, del Sudan, del Ciad, dell’Egitto...»
Avevate cibarie nelle macchine?
«Avevamo acqua, succo di frutta, tanta frutta, tonno... Sul barcone solo pane formaggio e acqua. Le risorse erano poche e non sapevamo quanto sarebbe durato il viaggio».
Erano gli intermediari a razionare il cibo?
«No, no, eravamo noi che ci autogestivamo».
Senti, è vero che i barconi spesso ospitano potenziali estremisti inviati appositamente dai gruppi terroristici per compiere attentati in Occidente?
«Ti faccio una domanda: quand’è che sentiamo parlare del terrorismo islamico?»
Non è vero che attraverso i barconi sono arrivati terroristi, Abdullahi, e potrebbero arrivare ancora come diretti emissari dello Stato Islamico?
«L’Italia è forse stata colpita da un terrorista salito sul barcone e sbarcato a Lampedusa? Ne hai notizia? Si sono fatti saltare in Italia?»
In Italia non ci sono stati attentati per il momento...
«Ecco, per fortuna!»
Però, Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è arrivato a Lampedusa con un barcone nel 2011 ed è stato quattro anni in carcere in Italia per aver partecipato ad una rivolta nel centro migranti, proprio a Lampedusa, dove aveva, tra l’altro, fornito un’identità falsa. Per questo, non credo che la mia domanda sia così stupida e indebita, Abdullahi.
«Tu puoi fare le domande che vuoi. Io ti rispondo secondo la mia coscienza e la mia esperienza. Si è mai verificato che qualcuno che è sbarcato con un barcone avesse l’ebola? Eppure c’era un allarme».
Abdullahi, io ti faccio domande ispirate alle mie curiosità. Magari queste curiosità sono stupide, ma le domande stupide, se ottengono risposte intelligenti, possono aiutare gli stupidi a diventare un po’ più intelligenti.
«Certo, certo, ma tu chiedi cosa vuoi. Ma il problema dei mezzi d’informazione è proprio questo».
Amico, io vengo dal Mezzogiorno d’Italia e mi sono accorto se un mio coetaneo avesse un comportamento che potesse deviare verso l’affiliazione ad un’organizzazione di stampo mafioso. A te non è mai accaduto di conoscere un fanatico islamista?
«Ma io ti chiedo, è mai possibile che un uomo che sia stato soccorso dai marinai italiani si faccia saltare nel Paese che l’ha soccorso?»
È possibile, purtroppo. Scusa, amico mio, ma è possibile. Ti citavo l’attentatore di Berlino, è certamente un caso isolato. Comunque, rispondendo alla tua domanda, questo caso isolato rende possibile ciò che tu giudichi impossibile.
«Quelli che si fanno saltare di solito sono cellule dormienti, frutto di una fallita integrazione».
Su questo sono d’accordo, Abdullahi. Ma parlavamo d’impossibilità prima, non di improbabilità.