Yvan Sagnet e la ribellione al caporalato

La storia del giovane africano che ha guidato la prima rivolta dei braccianti in Puglia

    di Roberto Rosano

Ho una terribile faringite, la febbre quando incontro Yvan Sagnet. Ha solo sei anni più di me ed un vissuto, al cui confronto, il mio si umilia nell’ordinario. È alto e magro, ha il colore del manto di un monaco. Un naso armonioso e schiacciato, con un piccolo neo sulla punta che gli dà un’invadente aria infantile. Una barbetta a filo di mento che fa tutt’uno con le basette e la zazzera crespa che ha in testa. Labbra carnose da Mansa Musa. Tra frase e frase, lascia cadere pause tanto lunghe che ho paura di non avere abbastanza spazio nel registratore.

È nato a Douala, in Camerun, è ingegnere, scrittore, attivista politico, senza partiti, e Cavaliere della Repubblica per aver contribuito all’emersione e al contrasto dello sfruttamento dei braccianti agricoli, su nomina di Sergio Mattarella. La sua storia inizia nell’estate del 1990, durante il Mondiale italiano, quando il Camerun, la sua nazionale ed i suoi coloratissimi tifosi assistono ad una cavalcata trionfale dalla prima partita con l’Argentina di Maradona ai quarti di finale con l’Inghilterra. Non era mai accaduto nella storia che una squadra africana raggiungesse simili vette in Coppa del Mondo. Yvan aveva cinque anni e l’Italia per lui, quell’estate e per anni, da quel momento, è una terra di leggenda, come Aztlàn, come Camelot, come il Paese dei balocchi. E come un eroe antico, quando davvero raggiunge il Paese che ha fantasticato, capisce che il suo sogno era più bello della realtà e laddove pensava di vivere beato quel sogno, finisce col dover combattere contro un esercito di draghi e demoni, i caporali, i nuovi padroni, i nuovi negrieri, per difenderlo.            

Yvan, lei di chi è figlio?

«Sono il figlio adottivo di un commissario di polizia del Camerun, attualmente in pensione, e di una cameriera camerunense. Mia madre è vissuta in Europa, in Francia, perciò sin da bambino mi ha trasmesso un’educazione occidentale. Ad esempio, ricordo che noi mangiavamo a tavola, sebbene in Africa si mangiasse a terra. Facevamo tre pasti. Ci alzavamo presto ed andavamo a letto presto dopo cena come in una comune famiglia europea».

Fratelli, sorelle, ne ha?

«Da noi la famiglia è più grande, la casa ha mura più larghe. In casa nostra vivevano anche i miei cugini, che in Africa si chiamano comunque fratelli. Eravamo tanti in casa. Circa una quindicina».

Una famiglia grossomodo benestante, intuisco, visto che i suoi genitori adottivi si erano incaricati di mantenere anche i suoi cugini.

«Diciamo che era abbastanza modesta, anche se non ci mancava nulla. Ma in Africa, vede, c’è molta solidarietà tra parenti, ci si aiuta. È un dovere, anche quando si vive in ristrettezze».

Facciamo un salto sino al 1990. Perché questa è innanzitutto una storia d’amore tra un bambino ed un Paese, in cui in quell’anno si disputano i Mondiali di Calcio. Quel bambino è lei e quel Paese è l’Italia... Sono i mondiali in cui la sua nazionale arriva ai quarti di finale e a Napoli disputa l’ultima partita contro l’Inghilterra. Un risultato impensabile per una nazionale africana...

«Oh, sì, bellissimo. Avevo cinque anni. Mi ricordo quasi ogni partita di quel mondiale. In Camerun si fermava tutto. Ho ancora in mente la canzone della Nannini, straordinaria».  

La cantavate da quelle parti? La capivate Notti magiche?

(Comincia a cantare maldestramente la canzone della Nannini) «Sì... Sì... La cantavamo tutti. Eravamo orgogliosi di essere camerunensi, eravamo così concentrati sulle imprese dei leoni d’Africa, erano il nostro orgoglio. Vivevamo la stessa ambizione, la stessa ansia».  

Lo sa che a Napoli tifavano tutti per il Camerun contro l’Inghilterra?

«Ahhhh, sì, sì, me lo hanno detto. Ma anche noi abbiamo tifato per l’Italia dopo l’uscita del Camerun».

Era la prima volta che vedeva dei bianchi, Yvan?

«La prima volta, sì. Io ho scoperto così il bianco. Dicevo: papà chi sono questi bianchi, perché sono tutti così belli? Sa, erano tutti belli, c’erano Baggio, Schillaci... Schillaci aveva pochi capelli, però... Così, è nato il mio amore per l’Italia. Crescendo ho cominciato ad interessarmi a questo Paese bellissimo. Cercavo ovunque l’Italia e non avevo molti posti dove cercarla, all’epoca c’erano poche risorse, così la cercavo nelle riviste sportive. Mio padre era appassionato di sport e ne comprava sempre. Ho imparato la geografia italiana a partire dalle squadre, che so io: Inter - Milano, Atalanta - Bergamo, tutto così...»

A quale squadra teneva?

«Juventus, Juventus...»

Lo sa che la maggior parte dei lettori di questa intervista sono napoletani, vero? Non ha già troppi problemi?

«Eh, lo so, lo so. Ma sa, quando uno è bambino... (Ride)»

E questo amore per il Paese che ha organizzato i favolosi mondiali del ‘90 ispirerà molte scelte strambe nella sua vita. Ad esempio, al liceo scientifico, da programma avrebbe dovuto studiare il sistema economico francese e invece, arbitrariamente, sceglie di studiare quello italiano.

«Sì, è vero, è vero... è che a me non piaceva tanto la Francia. È all’origine di tanti mali africani, il colonialismo ha distrutto la nostra storia e poi le multinazionali francesi hanno fatto il resto. Poi avevo scoperto Enrico Mattei perciò...»

Non solo, ma si decide anche a studiare l’italiano, una lingua quasi inservibile per un africano che parli francese.

«Sì, un momento. Per me non era inservibile. Io volevo vivere in Italia, così sono stato costretto ad impararlo già prima di arrivare, perché uno dei principali criteri per ottenere il visto non turistico, ma di studio, era la conoscenza della lingua. Poi serviva avere un diploma di maturità ed una garanzia economica».

Cosa intende per garanzia economica... Una sostanza in danaro?

«Sì. Io volevo viaggiare regolarmente, non via mare. Perciò tra i vari criteri c’era una base economica di 5000 euro. Tantissimo. Nella nostra moneta, il franco camerunense, erano circa dieci anni di uno stipendio medio».

E come li ha trovati, Yvan?

«Lavoretti in giro, sacrifici e poi ho attivato una cassa di sostegno familiare. Le ho detto che in Africa la necessità di uno diventa una priorità per tutta la sua famiglia. I parenti, tutti, mi hanno aiutato. Cinquanta euro l’uno, venti l’altro, cento lo zio, ottanta il cugino e così... Ci ho messo circa due anni e mezzo a racimolare la somma».

E realizza il suo sogno nel 2007. Il suo aereo sorvola e doppia la costa atlantica, attraversa i cieli del Mediterraneo e atterra a Torino. Mi dica la verità, perché proprio Torino? C'entra ancora la Juve?

«Eh sì». (Ride fragorosamente).

Gobbo fino al midollo, proprio, fino allo scorno, proprio! Va be’, soprassediamo. Quando si parte con così tante aspettative si rimane delusi, è inevitabile. La sua prima impressione di questo Paese qual è stata?

«Ahhhhhh (gli occhi sfolgorano). Il primo giorno ero commosso... Ero sorpreso da tutto, persino dalle scale mobili. Non le avevo mai viste nel mio Paese. Mi sembrava una cosa da guerre stellari! Minchia! Avevo sempre il naso per aria. Il secondo giorno, la delusione! Faceva freddo, un freddo vigliacco. E non solo il cielo era freddo, la gente era fredda, distaccata. Io ero abituato a vivere con quindici, venti persone, figuriamoci».

Vede, si fosse messo a tifare il Napoli non avrebbe avuto questo shock. Dalla diceva che Napoli è tra l’Africa e Marte! Si sarebbe ambientato prima. Va be’, le ho già fatto troppi rimproveri... I primi sei mesi, a Torino, è ospite di un amico. Non le è rimasto un buon ricordo di quel periodo, vero? Non vedeva mai un vicino di casa. Le mancava la sua famiglia numerosa, le mancava l’ affettuosità collosa dell’Africa...

«Eh, sì, invece al collegio le cose sono migliorate. Gli studenti, i compagni mi volevano bene, abbiamo fatto amicizia. Giocavamo, stavamo bene tra noi. Mi sentivo meno solo».

E comincia a studiare ingegneria al politecnico. Se la cavava, era uno sgobbone, da quanto so...

«Sì, ero costretto a sgobbare per poter usufruire della borsa di studio».

E qui inizia il capitolo più importante di questa storia. È il 2011 e arriva la provvida sventura...insomma la segano ad un esame...

«Sì, mi bocciano all’esame d’informatica. Ero negato in informatica. Il panico, non avevo più i soldi per mantenermi l’anno successivo. Mi serviva un lavoro e subito».

E arriva il consiglio di un amico...

«Sì, un amico mi dice, perché non vai in Puglia?, senza darmi troppe spiegazioni. Non sapevo nulla. Non conoscevo nessuno lì».

E lei dice: perché no, se pagano, proviamo ad andare a raccogliere i pomodori. Arriva a Nardò, in provincia di Lecce, presso la Masseria Boncuri...

«Sì, arrivo alla stazione e mi viene a prendere un ragazzo che mi porta alla masseria, che era un centro di accoglienza messo a disposizione dal comune per i lavoratori stagionali. A Nardò, per la raccolta degli ortaggi arrivavano centinaia e centinaia di braccianti, così il comune ha allestito questo centro di accoglienza ai limiti dell’orrore».

Entriamo nel merito di questo orrore, Yvan?

«Il centro era esteso su circa un chilometro. C’erano tende e poi baracche di cartone costruite dai braccianti, perché le tende erano insufficienti rispetto al numero di lavoratori. Sembrava un campo di concentramento. Un degrado totale, c’era immondizia dappertutto. C’erano solo cinque bagni per ottocento, mille persone. Per fare la doccia ci si metteva in fila per due ore, in media. In Africa avevo conosciuto la povertà, ma non l’indegnità. In questo posto invece non c’era dignità. Hanno cominciato a spiegarmi la realtà del caporalato. Mi hanno detto che sarebbero arrivati i caporali a portarci dalla masseria al campo di raccolta».

Come si riconosce un caporale? Che posa ha? Com’è?

«Lo riconosci subito. Arriva con aria spavalda e i lavoratori gli si avvicinano come pecore al pastore. La mattina arriva con un furgone da nove posti in cui entrano però in venticinque. Ci costringevano a pagare una tassa di trasporto di cinque euro. Le piantagioni erano in periferia e non si poteva raggiungere il campo autonomamente».

A che ora iniziava la giornata di lavoro?

«Alle tre di notte».

Fino?

«Alle quattro, cinque del pomeriggio. Tutto il giorno a raccogliere i pomodori sotto un sole caldissimo. Dovevamo riempire un contenitore di tre, quattro quintali. Il sistema di pagamento era a cottimo. Perciò la paga dipendeva dal numero di casse che riuscivamo a riempire, non come previsto dal contratto nazionale, in base alle ore. Dipendeva tutto da te, dal fisico, dalla velocità, dalla prestanza».

Quindi lavoravate a cottimo, ma la paga media suppergiù...

«Venticinque euro lordi».

Al lordo c’è da sottrarre però...

«5 euro di tassa di trasporto, 3.50 di panino. Non potevi portarti nulla da casa. Neanche l’acqua. Dovevi comprarla dal caporale, una bottiglietta 1.50. È un sistema di ricatto totale nei confronti del lavoratore. Se una persona si ammalava, lavorando a quaranta, quarantadue gradi, il caporale ti chiedeva venti euro per portarti in ospedale».

Lei ha visto svenire un ragazzo e andare in coma...

«Sì e quel giorno il caporale, con grande senso di pietà, ha chiesto venti euro per portarlo in ospedale».

Ma chi è il caporale, di solito? È italiano, straniero? È vero che spesso il perseguitato diventa persecutore nella realtà del caporalato, come accadeva al tempo dello schiavismo?

«Sì, proprio così. Il caporale è un bracciante che ha fatto carriera. Il caporalato è un sistema etnico. Ci sono caporali pugliesi, stranieri comunitari ed extracomunitari. Ogni caporale sfrutta la propria comunità».

Chi c’è dietro i caporali?

«I proprietari del terreno. I veri responsabili di tutto. Sono loro che si avvalgono dei caporali per avere la manodopera. Chiamano i caporali per avere braccianti».

Non la criminalità organizzata?

«Le Mafie centrano e non centrano. Dipende. È un sistema criminale, ma non sempre centra con la criminalità organizzata. In alcuni posti sì, per esempio il litorale Domitio. Lì il caporalato è legato alla camorra. In Calabria il caporalato è legato fortemente alla Ndrangheta. Da noi in Puglia, no. In ogni caso queste realtà, di varia origine e natura, interagiscono tra loro per spostare i braccianti laddove ce n’è bisogno, dal nord al sud. È una vera è propria tratta di esseri umani con un reclutamento transnazionale in complicità con le imprese e le istituzioni. Le responsabilità sono davvero tante, i responsabili ovunque, insospettabili».

Quanto ha resistito in questo campo?

«Cinque giorni».

Cos’è che la convince ad armare il grande sciopero che ha cambiato la sua vita?

«Un giorno, ci vengono date nuove istruzioni sulla raccolta dei pomodori. Ci dicono che avremmo dovuto raccoglierli uno per uno, senza strappare la pianta dalle radici come facevamo di solito. Ciò richiedeva più tempo e per uno che lavora a cottimo era uno svantaggio enorme. Mi sono impuntato, ho chiesto di raddoppiare la paga e il caporale ha detto di no. Siamo entrati in un braccio di ferro. Non si aspettava che un bracciante potesse dire di no. Così ho coinvolto altri braccianti e lì è partito lo sciopero. I miei compagni hanno cominciato a guardarmi con fiducia, con speranza. Ero diventato un punto di riferimento».

Be’, era il più colto, stava studiando ingegneria, parlava l’italiano, gli altri erano, diciamo così...sprovveduti, poco istruiti... Mi stavo chiedendo, come ha fatto a convincere persone di etnie diverse che non parlavano l’italiano o il francese?

«Questa è stata la maggiore difficoltà dello sciopero. Siccome non parlavo alcune lingue, ho formato una delegazione con un rappresentante di ogni nazionalità. Quando parlavo, loro traducevano nelle lingue locali e così ho potuto coordinare lo sciopero».

Lo sciopero, però, diciamolo pure, era una miccia accesa, nulla di deflagrante. Com’è riuscito a far dilagare le sue ragioni oltre i confini del campo di Nardò?

«Infatti, era difficile, c’ho pensato e ripensato. Poi arriva l’idea: bisognava bloccare la statale, visto che il nostro campo era vicino alla statale. Il traffico che si è creato ha allarmato le forze dell’ordine, la gente bloccata nel traffico chiedeva il motivo... Insomma, abbiamo reso quello sciopero una notizia. Quella miccia ha prodotto un incendio impressionante! C’è stato così il primo incontro tra noi braccianti e le autorità locali. Non ci siamo fermati, la stampa ha dato voce alla nostra protesta. In serata, quando il campo si è riempito totalmente degli operai tornati dal lavoro ed ignari dello sciopero, abbiamo spiegato loro cos’era successo ed io ho fatto la prima assemblea al campo ed ho spiegato loro quali fossero i diritti per cui lottare. Eravamo tutti. Eravamo finalmente  d’accordo sul fatto che il giorno dopo nessuno avrebbe dovuto lavorare».

Il 15 settembre 2011, il governo Berlusconi, messo alle strette dalle sollevazioni di Nardò, approva una legge sul caporalato...

«Sì, la legge sarà approvata ad una settimana dalla fine dello sciopero, durato tre mesi. Poi un altro grandioso risultato: la reazione della magistratura, l’arresto di diversi caporali e imprenditori. Nell’ambito dell’operazione Sabr furono arrestate 16 persone. Quella legge non ci è piaciuta, ma è stato un passo avanti sicuramente».

Quella legge è stata poi modificata dal governo Renzi nel settembre 2016. Questa seconda versione, riveduta e corretta, vi ha convinto?

«Dunque, la prima legge è stata una gran soddisfazione, rispetto ad un fenomeno che esisteva in Italia da decenni. Prima il caporale veniva punito con una multa da 50 euro quando al giorno guadagna 2000 euro. Capirà! La legge del 2011 è stata perciò un passo avanti, però quella legge puniva solo il caporale con cinque, sei anni. Noi volevamo che ad essere puniti fossero anche gli imprenditori, i maggiori responsabili di questo sistema. Non si può contrastare il fenomeno se non si punisce l’imprenditore. Il governo Berlusconi così ha tutelato l’impresa e punito solo le sue manifestazioni secondarie, i caporali. Ma se arresti il caporale, non risolvi il problema, perché l’imprenditore rimane al suo posto e morto un caporale se ne fa un altro».

Sì, però, torniamo alla mia domanda. La seconda legge, quella del 2016...

«Con quest’ultima legge il reato è esteso anche all’imprenditore. E questo lo abbiamo apprezzato».

Ma?

«La legge del 2016 segna dei passi avanti, ma non consente di risolvere il problema alla radice. La legge è repressiva, ma non è solo con la repressione che si reprime il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori, la vera strada è la prevenzione. Come si sta facendo con la lotta alla mafia. Le responsabilità sono tante. Immagini le grandi catene che responsabilità hanno quando  impongono prezzi così bassi, che è impensabile pagare ai lavoratori il giusto salario. Il compratore poi non deve accontentarsi di comprare un prodotto biologico, ma deve anche scegliere prodotti che non vengano da un mercato senza regole, che sfrutta le persone. Noi avevamo chiesto che questa legge prevedesse che il consumatore fosse a conoscenza dell’origine del prodotto e del rispetto della qualità del lavoro di chi l’ha raccolto».

Si è sentito solo in questa battaglia?

«Dopo lo sciopero sono stato reclutato dalla Cgil per cinque anni. Un anno fa ho rassegnato le dimissioni. Il sindacato ci ha molto sostenuto insieme a varie associazioni. Perciò, non ero del tutto solo, per fortuna».

Le hanno chiesto di fare politica?

«Certo».

Non mi faccia fare la domanda, suvvia... Me lo dica lei chi gliel’ha chiesto, che sono curioso, anche se immagino...

«No, no, non posso dirlo, mi scusi...»

È stato acclarato che esista un piano per ucciderla ordito da forze che ancora operano a Nardò...

«Sì, certo. Purtroppo quando fai una battaglia del genere è inevitabile, soprattutto se intralci interessi forti, un giro di affari intorno ai 14 miliardi, solo in Italia. Grossi interessi con intrecci inimmaginabili in ogni campo».

Le è stata assicurata la giusta protezione per questa battaglia?

«No, purtroppo no. Figuriamoci!»

Cosa dicono in Camerun di quello che ha fatto? Sua madre...

«Mia madre non è affatto contenta. Ha paura. Mi ha detto: noi ti abbiamo mandato in Italia per studiare, non per combattere il caporalato. Che hai in mente? Sei pazzo».

È ancora innamorato dell’Italia?

«Non più, sono cresciuto moltissimo. Ho capito che ogni mondo è paese. Adesso mi sento un cittadino del mondo».

Cosa ha capito di quei bianchi, di quegli italiani che a cinque anni le sembravano tutti belli, buoni, come Baggio e Schillaci...

«C’è una parte bella, ma minoritaria. C’è una parte che rispetta le regole ed ha voglia di combattere ed un’altra, maggioritaria, che segue l’onda del regresso culturale che va avanti da vent’anni a questa parte».

E Dio... Quando appoggia la testa sul cuscino dopo aver combattuto per un intero giorno per l’uomo ed il suo diritto. Quando la paura di essere ucciso le toglie il sonno, ha un Dio da pregare, Yvan?

«Io non esco una sola mattina senza aver fatto una preghiera. Mi chiedeva se lo Stato mi ha protetto. Mi ha protetto Dio per il momento. Mi ha ispirato Dio in questa battaglia di giustizia insieme alle anime grandi».

E quali sono le sue anime grandi?

«Giuseppe Di Vittorio, Mandela, Gramsci, Marx».

Vale ancora la pena fare la lotta di classe, Yvan?   

«Sì, finché non smetteranno di farla i padroni».





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