A Cordoba si fa festa, a Napoli...

Dal trecentenario della nascita di Carlo di Borbone, spunti di riflessione per la città

    di Maria Regina De Luca

Una volta c’erano Montevergine, Santa Maria della Sanità, San Giuseppe, San Vincenzo, San Biagio, le due processioni di San Gennaro e infinite altre e il rituale che scandiva il passaggio dal buio del Venerdì santo alla gloria della Resurrezione era degno dei gradi teatri d‘opera. Ognuna di queste feste aveva i suoi profumi: a San Giuseppe quello delle zeppole, dorate metamorfosi delle pampuglie, dei trucioli del falegname santo levitate dall’olio bollente e dalla devozione, si spandeva lungo via Duomo; quello dei taralli dal forno dei Vergini si dilatava a dare il giusto tocco locale alle feste di piazza più affollate di Napoli, della Madonna e del Monacone, e costanti erano l’odore del torrone e quello dei fiori che a petali scendevano danzando da balconi e finestre per adagiarsi a tappeto sulla strada e per far da manto ai santi in processione. Per la scampagnata a Montevergine, i cui ex-voto sono tuttora famosi nel mondo, cavalli impennacchiati e inghirlandati portavano carrozze traboccanti di donne e di canzoni, nel profumo inebriante delle  rose.

La "passeggiata processionale" per eccellenza era quella che dal Duomo, l’ultimo sabato di Maggio, vedeva il Patrono percorrere il decumano medium, scortato dagli altri santi d’argento della Cattedrale, recarsi in visita a Santa Chiara dove il miracolo del sangue si rinnovava. L’inchino degli stendardi nel cortile, l’ingresso dei busti nella chiesa tra canti e preghiere, e soprattutto la devozione del popolo che gremiva letteralmente ogni spazio meriterebbe ben oltre che queste poche note. Aperta dal sindaco in fascia tricolore, accompagnata da membri del Comune, di ordini civili e religiosi e dal popolo, la banda in perpetua esuberanza di suoni sacri e mondani, la lunghissima processione faceva tra le sue soste strategiche quella a San Domenico Maggiore su palchi addobbati di rosso, i balconi pavesati delle sete cangianti delle coperte antiche che scioglievano nel vento le loro nuance ricamate nell’ininterrotto vortice di pelati e di preghiere. Quel che ne rimane, si deve forse al calendario ecclesiastico ma non fa che sottolineare il disagio di vivere e di sopravvivere della Napoli di oggi anche rispetto a quella di soli pochi decenni fa.

Il nocciolo della questione sta forse in quella pseudo voglia di nuovo non innovativa, ma rivoluzionaria: un "rinnovamento" che non ha aggiunto, ma estirpato, non ha costruito, ma distrutto, non ha restaurato, ma deturpato. Ancora nella seconda metà del secolo scorso, i cortili di Napoli si aprivano sulle strette vie del centro antico in tutta le loro magnificenza, alcuni con i giardini pensili affacciati sui giardini retrostanti, altri con vestigia millenarie ancora in vista e, nei cortili popolari, le testimonianze dell’economia del vicolo era espressa da attività artigianali e artistiche ininterrotte da secoli. Oggi questi cortili sono quasi tutti chiusi e in disarmo e, anche se con rammarico, il confronto tra questo nostro ancor recente passato e quanto avviene altrove scatta automaticamente, specialmente se pensiamo alla festa de Los Patios di Cordoba coi cortili traboccanti di fiori e a quella dei cavalli danzatori di flamenco che vanno a salutare la Vergine al termine dei festeggiamenti. Qui a Napoli, vi è stato un tentativo di recuperare un momento di bellezza della città antica e di proporlo con fierezza alla nostra distratta attualità. Nel trecentenario della nascita di Carlo di Borbone, ammirevoli associazioni private hanno dedicato alla sfilata di carrozze d’epoca e all’arrivo di Carlo III a Napoli l’intera giornata di domenica scorsa, a conclusione di un Maggio dei Monumenti all’insegna di Carlo di Borbone.

Alla scarsa e distratta presenza di sparuti gruppi di cittadini, le belle carrozze d’epoca e le dame in fastosi e ben fatti costumi hanno fatto la loro performance in piazza Plebiscito continuando il percorso lungo via Cesario Console e via Acton, nell’ininterrotto traffico automobilistico. Nel pomeriggio, il bel cavaliere in mantello rosso che ha impersonato Carlo di Borbone, accolto dai volenterosi rappresentanti dei gloriosi Sedili di Napoli col loro gonfalone candido ornato dei simboli, ha percorso tra cartacce e rifiuti di vario genere il tragitto da Porta Capuana, lungo il decumano major, con sosta in Piazza San Gaetano per la consegna delle chiavi della città al giovane re che vi si insediava quale primo sovrano di un regno indipendente e che mantenne tutte le sue promesse, anticipandone punti d’arrivo e perfino speranze. Non sono mancati grida di "Carlo, resta con noi!" e di "Carlo, noi votiamo per te!", struggente, patetica scena che le autorità cittadine si sono perse, in chissà quali altre faccende affaccendate.

Una nota particolare meritano le carrozzelle e i carri rustici che, mescolati alle carrozze d’epoca, ornati di fiori e di addobbi tipici, i cavalli danzanti con abilità straordinaria sugli scivolosi sampietrini, hanno fatto la loro parte a piazza Plebiscito e ne citiamo uno per tutti, Antonio, di Somma Vesuviana, che ha offerto un giro della piazza ad alcuni degli astanti. Tutto questo va a riconoscimento che non è il popolo napoletano a determinare il degrado della città e che questa leggenda va del tutto sfatata mentre, tra i misteri imperscrutabili della vita, almeno uno andrebbe rigorosamente risolto: a chi giova ridurre così una città? Si aspettano risposte.





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