'In democrazia non si vince da soli'

Zagrebelsky, confessioni del giurista: Dio, Dostoevskij, il referendum dello scorso dicembre

    di Roberto Rosano

Quando lo chiamo per concordare l’intervista, mi chiede, solerte, di rimandare: La prego sono appena uscito dall’ospedale, ci risentiamo tra un mese? Passa molto più di un mese. Quando lo richiamo, ha già pronta la battuta: Sono ancora vivo! Dopo pochi giorni mi riceve, con squisita gentilezza, nel suo ufficio del Campus Einaudi. Un enorme edificio di forma sinuosa, il cui tetto arieggia il guscio di una tartaruga. Parla con voce garbata, lenta, Gustavo Zagrebelsky. Il timbro che ci si aspetta da un confessore o da un suggeritore di scena. Indossa una camicia semplice, su pantaloni informali. Calza degli zoccoli sabot o qualcosa di simile. Con elegante flemma si siede e, senza proferir parola, con un cenno di mano, mi invita a sedermi. Ha osservato il mio registratore, i miei appunti accuratissimi, che forse non s’aspettava. Ha incurvato labbra e mento, come a dire: ammazza!

Mi trovo faccia a faccia col più grande giurista italiano vivente, giudice costituzionale dal ’95 al 2004, presidente della Corte Costituzionale nel 2014. Acerrimo avversario di Renzi al referendum costituzionale dello scorso dicembre. E adesso ce l’ho di fronte, proprio lui, con le sue spalle strette, da bimbo, con le sue mani bianche come candele. Col suo corpicino tutto inghiottito in se stesso. Eppure a me non la fa: è solo apparente quella calma, lo so. Te ne accorgi quando qualcosa non gli va giù: la voce gli si assoda, il tono balza, d’improvviso. Non grida, ma pare che gridi. Rimane immobile, ma pare che scatti. Il mistero della calma…

Professor Zagrebelsky, Lei di chi è figlio?

Allude alla figliolanza biologica o ad una figliolanza...

Da chi è nato, professore?

Domanda un po’ complicata. Dovrei prima dire di chi sono nipote. Posso infrangere il suo protocollo?

Senz’altro, sì.

I miei nonni paterni venivano da San Pietroburgo. Nel 1914 si trovavano a Nizza in vacanza quando furono chiuse le frontiere per lo scoppio della guerra. Mio nonno, che era ufficiale a Mosca, riuscì a rientrare per lo scoppio della Rivoluzione. Per anni non avemmo sue notizie. Salvo poi ricomparire con nostra sorpresa perché il regime sovietico lo aveva espulso come persona non gradita e inutile. A questo punto, posso rispondere alla sua prima domanda…

Favorisca pure la sua genealogia… Io non ho fretta…

(Zagrebelsky accenna un sorriso ed una risata veloce quanto uno scoppio).

Sono figlio di gente sradicata. Sono figlio di un uomo che per aiutare la famiglia faceva il garzone da un ciabattino e che poi si è messo a studiare Economia e Commercio, mantenendosi con una serie di lavoretti tra cui la stesura di brevi racconti che spediva al Corriere Mercantile, spacciandoli come novelline di Gogol da lui tradotte…

E Lei ha mai seguito la stessa prassi d’arrangiamento del papà? 

(Sorride. Fa come se non avesse sentito la domanda. Forse, non l’ha davvero sentita). 

Ma sono anche figlio di una donna valdese, della Val Chisone. Sa, in queste comunità minoritarie l’imprinting religioso è molto forte…

Una strana mistura… Insomma, un papà cosmopolita, intellettuale, ed una madre austera, disciplinata secondo una dottrina, quella valdese, che non dispensa certo dal rigore… Mi tolga una curiosità: come mai da San Pietroburgo i nonni andavano in vacanza in Costa Azzurra?

Vede, agli inizi del secolo, i russi andavano in vacanza in Crimea, ma la Liguria e la Costa Azzurra erano considerate equivalenti come clima, perciò… Prima Le ho detto che sono figlio di gente sradicata, ma chi vive fuori dal proprio Paese sente molto più forte il richiamo delle radici. Se la costringessero a vivere in Alaska penso rimpiangerebbe molto di più Fossano di chi ci vive o no?

Capisco benissimo ciò che vuol dire, perché sradicato lo sono anch’io e non solo per ipotesi, ma questa è la mia storia… Torniamo alla sua… Nella sua discendenza, però, ha taciuto della baboulinka, sua nonna, che è invece la persona che a me fa più simpatia. Sembra uscita da una pagina di Dostoevskij…

(Il giurista tace, si ritrae, assume lo sguardo di chi intensifica l’attenzione per calcolare la reazione ad una situazione sgradita).

Sua nonna, professore… Ho letto un articolo di Giancarlo Perna, che ne parlava. Faceva un ritratto di famiglia in un articolo, a dir la verità, molto critico nei suoi confronti, in prossimità del referendum costituzionale.

E cosa diceva di mia nonna?

Be’, pensavo lo avesse letto, non ha importanza…

Per favore mi dica cosa ha scritto di mia nonna…

Che era convinta di aver trovato un sistema per sbancare il casinò e che dilapidò i gioielli di famiglia.

Scusi, e come si permette Perna di essere critico su queste cose? No, per favore mi dica come si chiama l’articolo. (Il giurista si volta verso il computer e cerca l’articolo incriminato. Mi rendo responsabile di una delazione, senza volerlo. Per delicatezza, naturalmente, da quel momento, per una decina di minuti, spengo il registratore per lasciargli sbollire la rabbia. Mi sono scusato, gli ho fatto presente che lui stesso aveva parlato, in termini molto spiritosi, di sua nonna e di questo suo vezzo per il gioco in un’intervista del 14 luglio 2013 per Repubblica. Mai avrei azzardato un riferimento biografico non riferito e confermato direttamente da lui. Riaccendo il registratore…)

Ritroviamo il buon umore, professore?

Ma sì, vede, io certi articoli e certi giornali evito anche di leggerli perché… Vede, io ne avevo parlato in termini molto affettuosi. Il gioco è una delle caratteristiche del popolo russo… Invece Perna l’ha usato per darmi contro…

È il prezzo del successo. Nessuno si preoccupa più di essere crudele, di ferire i sentimenti, di strumentalizzare il privato… Deve essere insopportabile…

Può essere molto pesante… Perna mi accusava di avere il broncio permanente, di essere un menagramo, ma in realtà sopravvivo, sopravviviamo tutti solo perché ignoriamo… Ecco perché non ho letto quell’articolo!

Ho capito. Punto e a capo?

Punto e a capo!

Lei sente le sue origini? Parla russo, segue le vicende del suo Paese come chi sente il richiamo delle sue radici o per Lei ormai la Russia è quell’enorme Paese che giganteggia sulle cartine?

Io con la Russia di oggi non ho quasi avuto rapporti se non di natura professionale. Qualche viaggio a Mosca quando ero alla Corte Costituzionale, l’ho fatto per confrontarmi coi colleghi della Corte Costituzionale russa. Mio fratello Vladimiro, che è stato giudice alla Corte di Strasburgo, ha avuto più occasione di andare in Russia e di stabilire rapporti con giuristi di là. Io no. Semmai quello che mi coinvolge è la letteratura russa…

Ha delle preferenze in quest’ambito, professore?

Dostoevskij, senz’altro…

Capisco.

Immaginava?

Eh, be’, sì, immagino che un giurista di origini russe possa appassionarsi ad uno scrittore che seguiva i processi con tanta dovizia, discuteva i comportamenti degli avvocati, degli imputati, dei giudici. Ecco: Dostoevskij sapeva che ci sono casi in cui la norma può agire con violenza sulla condizione particolare del singolo. Professore, si deve seguire sempre la norma? Anche in questi casi? Anche quando è ingiusta, palesemente iniqua, come fece Socrate? O si ha il dovere di violarla come l’Antigone di Sofocle? Tra Socrate e Antigone chi ha ragione?

Dunque, diciamo che a me Dostoevskij interessa perché è un esploratore dell’animo umano, delle sue contraddizioni, del dramma della libertà degli esseri umani. C’è questo impasto di abiezione e salvazione… La libertà dostoevskiana è una tensione tra Dio e il demonio. Naturalmente metafore del Bene e del Male. Se non ci fosse questa tensione non ci sarebbe la libertà. Non è nella prospettiva di Dostoevskij un Mondo in cui vi sia solo il Bene. C’è anche il dramma della tensione e della scelta.

Kafka invece? Non trova gli stessi spunti…

Mi piace meno. In Dostoevskij c’è meno rassegnazione. C’è la fede, il Cristo. Pensi a quella famosa battuta ripetuta più volte nelle sue lettere, che lascia perplessi noi uomini razionali: Se mi dimostraste che Cristo ha perfettamente torto, io starei con Cristo. Starei col torto, col torto del Mondo, cioè delle nostre facoltà razionali.

E le piace questo atteggiamento? In fondo, è lo stesso atteggiamento dei giudici del Sant’Uffizio quello di Dostoevskij. Galileo tentava di convincerli con l’evidenza dei fatti, invitandoli a guardare attraverso il cannocchiale. Guardate, vi mostrerò che si muove la terra che credete ferma… Non le pare, professore?

A me piace molto un motto che trovo nei Fratelli Karamazov di questo santo, lo starek Zosima, che diceva: la Bibbia è come un grande bassorilievo dell’umanità, trovi tutto ciò che ci riguarda. Secondo me dietro questo atteggiamento di Dostoevskij c’è la sua visione ultra-terrena che legava alla sua esperienza di epilettico. Una cosa terribile. Ma in quelle frazioni di secondo che precedono la crisi lui viveva in un’altra dimensione. Diceva: non ci rinuncerei per nulla al mondo...

Morbus sacer…

Infatti!

Anche Lei, come il suo autore preferito, fa spesso ricorso alla Bibbia, alle sue storie, alle sue suggestioni. Ha scritto un libro col cardinal Carlo Maria Martini, ha tradotto Chaim Cohn, che studiava i resoconti evangelici dal punto di vista ebraico. Ha una passione per il Grande Inquisitore… Lei ha mai bisogno di Dio, professore?

Le rispondo come forse Le avrebbe risposto il cardinal Martini: la fede non è qualcosa che si ha. Io ho la conoscenza dei rapporti tra i tre lati di un triangolo retto, come ce lo ha spiegato Pitagora, ma la fede è un’altra cosa… Cosa vuol dire per Lei avere fede?

Lei intellettualizza troppo la mia domanda, che era molto più semplice. Ha presente l’alba dei tempi, quando le cose del mondo non avevano ancora un nome? Ha presente quando gli uomini iniziarono a pregare dio perché avevano paura della tempesta? A Lei non capita mai…di aver paura della tempesta, professore?

Io non credo nel Dio con la barba, certamente no… (Ha lo sguardo rivolto verso il basso, sembra non parlare più con me, ma con il suo ombelico). Però ci sono dei luoghi, soprattutto in montagna, in cui ho come dei rapimenti. Abbiamo bisogno di silenzio, di solitudine, di penombra. Non la solitudine come abbandono, ma come raccoglimento, nessuno oggi vuole più star solo. Il silenzio… Sembra che oggi ne abbiamo paura… Siamo perseguitati dal rumore, dalla musica… La troviamo dappertutto. Spesso, anche la musica classica è infilata dappertutto, banalizzata. Un giorno ero in un grill sotto Firenze e in bagno si sentiva la Primavera di Vivaldi. La musica, anche la più sublime, l’abbiamo resa un sottofondo. Ecco un sottofondo…

E cos’è che le piace della penombra? 

Noi viviamo in una società illuminata, illuminata per intero. La brava Margherita Hack, famosa studiosa del firmamento, aveva calcolato che vi sono solo cinque posti al mondo indenni dall’inquinamento luminoso. Sono i posti dove puoi contemplare le stelle… Uno spettacolo che quasi nessuno ha mai visto se non in qualche luogo nel deserto. Ciò vuol dire che la troppa luce acceca, ecco ti acceca. Puoi vedere davvero qualcosa solo nella penombra...

Dante Alighieri forse sarebbe stato d’accordo con Lei… È passato per le tenebre dell’Inferno prima di riveder le stelle…

Mi viene in mente un famoso libro di Gitta Sereny, una scrittrice ebrea: In quelle tenebre… Lo legga, è un grosso libro, ma se inizia a leggerlo non smette più. È il resoconto di una lunga serie di colloqui avuti nel carcere di Düsseldorf con Franz Stangl, oscuro poliziotto austriaco divenuto capo del campo di sterminio di Treblinka. All’inizio il criminale nazista si mostra chiuso, sulle sue, poi le apre completamente il cuore, si inabissa con lei nel buio del suo animo, per poi riaffiorare cambiato, riconciliato. Quando c’è stato l’ultimo colloquio, la Sereny è tornata a casa per scrivere gli appunti, ripromettendosi di andare a trovarlo il giorno dopo, ma il giorno dopo scopre che è morto d’infarto. (Gli occhi del giurista sono attraversati da una scintilla di commozione, appena percettibile, che dura un attimo).

In cosa consiste precisamente il lavoro del giurista? Se un ragazzino di dodici anni Le chiedesse cosa fa nella vita?

Se mi dà un po’ di tempo le racconto un apologo che dimostra com’è complicato il mestiere del giurista. Ci sono cinque speleologi, che vanno nelle viscere della terra. Una frana ostruisce le vie del ritorno e rimangono bloccati. Si mobilitano i soccorsi, tutt’altro che semplici. Passa un giorno, passa l’altro. Dieci soccorritori soccombono in frane successive senza riuscire a tirarli fuori. Intanto sottoterra comincia a scarseggiare il cibo. Così gli speleologi decidono all’unanimità di tirare a sorte chi di loro si sarebbe dovuto sacrificare e sarebbe stato mangiato dagli altri. Fanno questo patto, tirano a sorte. Viene estratto quello che aveva proposto l’accordo. Arrivano i soccorritori e trovano lo scheletro del quinto, scarnificato. Qui entra in atto il diritto: processo per omicidio volontario. Che si fa?

Lo chiede a me?

Sì.

Io non lo considererei un omicidio, ma un eroico sacrificio, meditato, voluto.

I giudici hanno tutti opinioni diverse. Il primo lo considera omicidio, ma viste le condizioni particolari, propone di comminare la pena di morte in un provvedimento di clemenza… Un altro giudice li assolve, perché in fondo quegli speleologi non erano più nella società civile, ma sottoterra, in un altro mondo. Sono tornati cioè a quello che voi filosofi chiamate Stato di Natura, dove vale la legge della giungla, la legge della sopravvivenza.

Eh, già…

Un altro giudice dice: no, non era lo stato di natura a valere nella grotta, perché c’è stato un accordo, un nuovo patto che ha dato origine ad un altro tipo di società civile... Dunque, la legge che vale sulla terra non può interferire con il nuovo ordinamento giuridico che nasce sotto terra, nella grotta… Un altro giudice dice: sì, ma questi ritornano nella società civile e noi siamo pagati per far valere la legge che sta sotto il cielo, non quella sotto terra. Vede che casino! Lei prima mi chiedeva se si potesse violare la norma, ma sappia che il progresso del diritto è sempre avvenuto attraverso atti di ribellione al diritto esistente. Pensi all’obiezione di coscienza… Certo, la norma è norma e va rispettata, ma questo discorso vale nella normalità della nostra vita. Il diritto è una tecnica di regolazione della società che vale nella normalità dei casi. Ci sono casi, però, in cui, come diceva don Milani, l’obbedienza non è più una virtù.

Deve essere molto complicato studiare le sfumature del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. Ma quando le capita di giudicare se stesso, di esaminare la sua coscienza… Fa più fatica o…

Purtroppo nei confronti di sé medesimi è facile trovare alibi. Torniamo a Dostoevskij. Una delle cose dette da questo santo, Zosima, proprio all’inizio del romanzo, nel corso di una riunione di famiglia... Ha presente?

Nella stanzina del convento...

Esattamente! Zosima dice più volte: soprattutto non mentire a te stesso! Perché, vede, la cosa più facile è mentire a se stessi. Autoassolversi!

Ma Lei non si concede mai degli eccessi? Non si sbraca mai? È sempre così compassato?

Ahimè, no, sa che è una domanda che mi mette in difficoltà? Non è certamente la prima, a dire il vero! (Ride) Capisco che è giusto che ci siano questi momenti, ma io sono essenzialmente noioso. In vita mia non mi sono mai ubriacato, mai, non ho mai assunto sostanze…

Mai, mai?

Dice che dovrei provare?

(Ci fissiamo per alcuni secondi, prima di scoppiare in una goliardica risata).

Ma un momento: una volta sì. Ero in Belgio, a Bruxelles. Soffrivo di coliche renali e allora ho assunto una sostanza, sì… Sono stato ricoverato in ospedale e mi hanno fatto un’endovena di oppio, papaverina. È l’unica volta in cui mi sono trovato…

Passatempi, diversioni non ne ha?

Suono con Mario Brunello, uno dei massimi violoncellisti al mondo. Guardo le partite di calcio, mi piace il tennis…

Per chi tiene?

Sa io sono un vedovo. Io come tutti ero del Toro. Avevo sei anni quando c’è stata la sciagura di Superga. Ricordo Torino in lutto. Lei non era neanche nato…

Eh, no… Lei si giudica molto noioso, ma il suo dibattito con Matteo Renzi, prima del referendum, su La 7 è stato seguito da quasi due milioni di persone, con uno share che oscillava tra l’8% e l’11%...

Dopo le due ore che abbiamo passato insieme, mi sarei buttato nel Tevere. Non mi sono mai trovato tanto a disagio. Poi, però, riflettendoci, lui ed io eravamo lì per fare due cose diverse. Io ero lì per dialogare, guardavo lui, ha notato? Lui invece guardava la telecamera…Faceva…

Il piazzista!

No, no io questo non l’ho detto!

Ma lo ha pensato...

Non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Forse, i politici sono fatti così.

E dell’imitazione che di Lei ha fatto Crozza? Che mi dice?

Sublime!

Si guardi con quel fazzoletto… Crozza la impersonava esattamente così…

È che io ho sempre l’allergia, che ci posso fare? Il giorno dopo l’imitazione, l’ho chiamato per fargli i complimenti. La cosa curiosa è che alcuni miei amici avevano difficoltà a parlarmene, pensando che io mi fossi offeso. Invece, quell’imitazione l’ho vista diverse volte con mia moglie, ridendo moltissimo.

Deve essere strano essere imitati in televisione…

(Ride) Sì sì, è una curiosa sensazione. Poi, suvvia, era talmente spiritoso, non aveva nulla di offensivo...

Le dava un po’ dell’inconcludente, però… Insomma, di uno che se gli fai una domanda rimanda a cento libri, divaga e non arriva mai al punto…

Quello non era vero! Ma anche noi adesso abbiamo fatto riferimento a tante cose, tanti libri...

Adesso, sbarazziamo baracche e burattini. Devo farle due domande serie. (Alza gli occhi al cielo. Poi fissa stranamente il mio polso). Ma Lei non è mica in libertà provvisoria? Perché ha quel braccialetto rosso? Sto scherzando, figurarsi (Ride con sabauda moderazione).

Prima del referendum avrei voluto farle due domandine. Lo so che sono in ritardo. Comunque, gliele faccio lo stesso. È parso che la nostra Costituzione, di cui Lei è uno dei massimi esperti, se non il più esperto, porti male i suoi anni. Montanelli diceva che li porta male dal primo giorno. Ciò sarebbe dovuto in primo luogo ad un difetto di ripartizione dei lavori. Già Calamandrei aveva evidenziato che non fu un lavoro davvero collettivo, fu un lavoro devoluto alle commissioni, ognuna delle quali lavorò per conto suo… Non ci fu una sintesi vera e propria, perché nessuno volle rinunciare al proprio elaborato… Che mi dice?

Dunque, come tutte le opere umane anche la Costituzione può essere criticata. Calamandrei lo aveva fatto dal suo punto di vista: anche Einaudi, anche altri. Quelli che venivano da una cultura liberale avrebbero voluto una costituzione semplice, lineare. Com’era lo Statuto Albertino. Lo Statuto era la Costituzione di una società semplice, liberale, che si basava sul principio sommo dell’intangibilità della proprietà privata e delle libertà borghesi. Le costituzioni del nostro tempo sono costituzioni di società pluraliste. La nostra costituzione è di compromesso, sì, è vero. Ma è un difetto il compromesso? Un compromesso implica che tu ma anche gli altri rinuncino a qualcosa di loro per trovare un terreno comune.

Quindi, non è vero che la Costituzione è una macchina pezzo per pezzo ben fatta, ma senza giunture? Non è un difetto il fatto che appaia rabberciata da un compromesso?

Ma far funzionare una Costituzione pluralista è più difficile. Bisogna avere disponibilità nei confronti degli altri. Attitudine a creare coalizione politica: io vedo con timore le posizioni ultime di quelli che dicono io sto all’opposizione fino al momento in cui vincerò e prenderò tutto. Questo in una democrazia costituzionale non è possibile. L’idea di vincere e governare da soli non mi piace. A me spaventava il motto che diceva: la sera stessa delle elezioni si sappia chi ha vinto! In democrazia non vince nessuno, se alla parola vincere si dà un significato bellico.

A proposito dell’attitudine a creare coalizione politica… Le proporrei una riflessione storica... I nostri costituenti partirono dal punto di vista opposto a Weimar. Cos’era Weimar? L’impotenza del potere esecutivo, la babele dei partiti, maggioranze instabili. Si dice che Hitler vinse per questo, perché portava ordine ed efficienza nel caotico sistema di Weimar. Ora quando i tedeschi hanno redatto la loro Costituzione, sono partiti dalla negazione di Weimar. Noi invece partivamo dal presupposto contrario: esautorare il governo, rifare tutto sommato Weimar. Io francamente non trovo così orripilante la possibilità che si sappia chi ha vinto, perché, per quanto la parola vincere non mi piaccia, la considero preferibile alla parola ricatto. Il potere di ricatto che la nostra attuale Costituzione dà ai piccoli partiti nei confronti della maggioranza, per forza di cose di coalizione, mi spaventa molto di più. L’inconcludenza di questo sistema mi spaventa molto di più!

Tra le due posizioni, il timore dell’instabilità e dell’inefficienza, non saprei scegliere quale ha ragione. Hanno ragione entrambe: da un lato bisogna evitare il disfacimento della democrazia e dall’altro bisogna evitare i rischi dell’autoritarismo. Io mi preoccuperei di entrambe le cose: le costituzioni cercano di trovare una via che combini le risposte a queste due opposte esigenze. L’essenza della democrazia è che tu hai un potere che chi vince le elezioni dovrebbe gestire per il bene comune. Ma siamo ingenui, così ingenui! Il potere viene gestito per mantenerlo. E come lo mantieni? Fai promesse, elargisci danaro, provvidenze ai tuoi elettori, misure che essi si aspettano. La democrazia è in fondo, in fondo, un regime dello sperpero delle risorse pubbliche. Cos’ha in mano?

È un numero di Micromega del 1995, in cui Lei fa una bella analisi del processo più famoso della storia, il processo a Gesù. Pilato, ad un certo punto, decide di rimettere il giudizio al popolo. E Lei approfitta dello spunto per dire chiaramente che il giudizio del popolo ha un valore se il popolo non è usato, se la volontà popolare non è assunta come definitiva, ma sottoposta a verifica e controllo; se la folla non è sotto tutela, se non è reagente ma agente, cioè capace di iniziativa propria. Lei non ha l’impressione che l’ultimo referendum non rientri nella tipologia da lei descritta nel ’95? Non ha avuto l’impressione che quella folla sia stata più reagente che agente?

Be’, mi verrebbe da dire: sante parole le mie! No? Poi ognuno fa il meglio che può fare. Io insieme a tanti altri nei mesi precedenti al referendum mi sono dannato l’anima, ho girato l’Italia per partecipare a dibattiti discussioni, per fare della folla un soggetto di democrazia, una folla agente e non reagente.

Buona parte del fronte del No, però, mi pareva mossa da propositi più biechi, non crede?

No, secondo me avevano paura che Renzi stravincesse, perché se avesse stravinto sarebbe diventato il padrone dell’Italia. Avrebbe governato il PD, avrebbe messo a tacere l’opposizione, avrebbe chiesto le elezioni anticipate.

Professore, io non sono d’accordo con Lei su questo punto, ma non mi va di finire con una controversia. Mi va di finire in un altro modo.

E come?

So che Lei ha curato una riedizione delle Lettere dei condannati a morte della resistenza italiana.

Sì… Mi avevano chiesto…

Ho trovato una lettera che non voglio spiegare, perché si spiega da sé e spiega anche la sua tenerezza per la Costituzione repubblicana, le libertà e i diritti che difende. Porta la firma di Domenico Cane, trent’anni, artigiano decoratore di Torino:

Mamma, fra un’ora non sarò più di questo mondo. L’ultimo mio anelito sarà per te. Nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Se non ho saputo vivere, mamma, so morire. Sono sereno e innocente del motivo che muoio. Va’ a testa alta e di’ pure che il tuo bambino…non ha tremato…e che è morto per la libertà. Saluto tutti. Ciao mamma, papà, Stefano, ciao a tutti. Tutto è pronto. Addio mamma, mamma, mamma, mamma, mamma.





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