Il quattro maggio, lo sfratto di Napoli

Era il giorno dei traslochi in una Partenope senza distanziamento sociale

    di Flora Fiume

È ufficiale! Il quattro maggio inizia la fase due. Così è stato detto. Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Almeno fino a quando non è stato aggiunto che questo si può fare e quell’altro no, ma che poi non dobbiamo perdere di vista che potrebbe essere una fase temporanea, che se le cose non dovessero andare come si spera e i contagi dovessero tornare ad aumentare e allora si tornerà di nuovo alla fase uno. Ed è stato un po’ come quando da bambino, quando l’unica cosa che desideravi era respirare aria di assoluta libertà, ma ti sentivi costretto in una morsa: uno spazio sconfinato da un lato e dall’altro la fatidica raccomandazione materna “puoi correre, ma non sudare”. E proprio quando stavi lì pronto a sprigionare tutta la tua energia infantile la paura di eventuali nefaste conseguenze ti bloccava. Eppure è facile immaginare che la voglia di far cose, dopo le costrizioni delle ultime settimane finisce per prevalere. C’è chi dice che se ti stai chiedendo se potrai fare una cosa oppure no, e allora non la puoi fare.

Fatto sta che dal quattro maggio ci sarà un cambiamento e con ottime probabilità sarà caotico. Ma per noi napoletani non è certo una novità. Il quattro maggio è la data del cambiamento per antonomasia. Da diversi secoli. Dal 1611 per la precisione, da quando cioè il vicerè Don Pedro de Castro stabilì per legge che quello doveva essere il giorno dedicato a sfratti e traslochi. A quanto pare, storicamente, ai tempi dell’Impero Romano, il mese dedicato al trasferimento di abitazione era agosto. Ma pensare di svolgere attività così pesanti nella calura estiva partenopea era impensabile. Così come era impensabile farlo il primo maggio come Don Juan de Zuniga, il precedente vicerè, aveva stabilito nel 1587. Il primo maggio è il giorno in cui si festeggiano i Santi Filippo e Giacomo, e nel cuore del popolo napoletano la devozione religiosa prevale sopra ogni cosa.

Per circa quattrocento anni quindi il quattro maggio è stato il giorno in cui la nostra città era tutto un brulicare di persone per strada, mobilia e suppellettili portati da una casa ad un'altra, facchini affaccendati, androni di palazzi affollati. Non per niente “‘e quatto ‘e maggio” è diventata una proverbiale espressione per indicare un grande cambiamento di vita, ma più di tutto una grande baraonda. Come tutte le espressioni vernacolari che affondano le radici in passate tradizioni da qualche tempo è andata un po’ in disuso. Ma a giudicare da quello che si sente in giro, ci sono ottimi motivi per pensare che dal prossimo lunedì tornerà al suo antico splendore. A noi non resta che stare a guardare e chissà che la prossima canzone che sentiremo cantare dai balconi non sarà quella di Giacomo Rondinella e Mirna Doris: “Core, fatte curaggio! ‘sta vita è nu passaggio… Facímmoce chist’atu quatte maggio… Che ce penzammo a fá, si ‘o munno accussí va?”.





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