Inglese e comunicazione

L'anglo-americano ha invaso la pubblicità

    di Silvio Fabris

Slogan, colonne sonore, jingle, discorsi interi: la pubblicità in Italia spesso parla inglese. E che fine fa la comunicazione (e l’italiano), che dovrebbe essere chiara e diretta al pubblico?

Si dice che la pubblicità deve essere più chiara possibile, ma è anche emozione e la parola inglese.

A volte la gente si lascia affascinare più dal suono che dal significato. Vi ricordate la messa in latino: ognuno la riempiva con qualcosa di suo. Lo stesso accade con l’inglese. Anche in musica è più funzionale dell’italiano che richiede più parole e mediamente più lunghe.

In pubblicità se una buona campagna nasce in inglese perché cambiarla?

Molte agenzie lo usano quando non c’è nulla da spiegare, ma vogliono solo trasmettere emozione. È un discorso di immagine per target specifici, ragazzi soprattutto, che così si sentono trendy, della serie: “Io faccio parte del gruppo e i miei idoli cantano e parlano in inglese”.

Altro aspetto positivo: dà l’idea di una azienda moderna e poi c’è internet, che agevola l’uso dell’inglese ed è utilizzato dai giovani. C’è chi pensa che non sia una colonizzazione dell’italiano né una limitazione, ma, anzi, l’italiano è ampliato dall’inglese, come da altre lingue straniere. Tutto il mondo lo usa, perché noi dovremmo sottrarci?

Negli anni Cinquanta si diceva “reclame” e oggi “advertising”. Ragioni merceologiche, di risparmio in senso ampio, fanno preferire l’angloamericano, non solo nella pubblicità e negli scambi, ma come lo fu il latino, anch’essa sarà la lingua unica del futuro, quella della nazione più potente. La nostra è una lingua letteraria, perché legata al latino e ai grandi scrittori del Duecento e Trecento. Questo fa sì che sia una bella lingua con cui chiunque può fare bei discorsi, ma va approfondita e modernizzata.  





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