Arminio, il paesologo evanescente
Inutili virtuosismi e stereotipi in 'Lettera a chi non c'era' del poeta irpino
di Mino Mastromarino
Per noi lettori “interni”, cioè delle aree interne (a cosa, non si sa), è data la felice possibilità di leggere l’ultima opera di Franco Arminio, intitolata “Lettera a chi non c’era. Parole dalle terre mosse”, per i tipi della Bompiani. È una raccolta di scritti, alcuni dei quali già editi, in prosa quasi diaristica e in poesia. Un “pastiche” sul tema delle calamità naturali, in particolari i terremoti, e di alcuni eventi catastrofici, come frane e crolli di ponti, attraverso il quale, pur con l’impianto del giornalismo narrativo, l’Autore ambisce evidentemente a delineare una personale metafisica, una poetica della Natura, del Destino e del Passato, nonché a muovere un’accusa e un’esortazione alla urgente ricostituzione di un rapporto sano tra Uomo e Paesaggio e Memoria, che troverebbe nei minuscoli paesi il laboratorio ideale. In tale direzione ci spingono gli impegnativi titolo e sottotitolo, arditamente ammiccanti alla “Lettera a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke.
La scrittura appare di piacevole fluidità, tanto che gli asciutti reportage dei terremoti italiani – inframmezzati ad intervalli poetici – ci consegnano un preciso inventario di calamità naturali e non, da scorrere agevolmente. Ammirevole è pure lo sforzo di individuare negli episodi tellurici e negli eventi avversi di altra natura un filo conduttore ovvero connotati geografici e antropologici comuni, preordinati - nell‟intenzione di Arminio - a comporre un’auspicabile strategia di prevenzione civile e di reazione morale alla Catastrofe. Ne emerge un’ermeneutica olistica dei disastri che sembra sancire - finalmente - il progressivo allontanamento dalla unilaterale visione meridionalistica, presente nei precedenti lavori dell’Autore, che ha esplicitamente rinunciato alla ostinata rivendicazione della idiosincratica cultura della rassegnazione da parte del Sud. Tuttavia, la denuncia della malapolitica e del deficit civico non rende di per sé poetico un insieme di versi, né letterario un esercizio di cronaca giornalistica. Allo stesso modo, descrivere lo stato e i problemi dei piccoli borghi irpini e appeninici non integra la prospettazione di una plausibile soluzione agli stessi.
Purtroppo, sia sotto il riguardo politico-sociale che sotto quello propriamente semantico, il libro risulta intriso di inutili virtuosismi e abbonda di stereotipi e di sintagmi retorici. Ad esempio, ivi si sostiene o comunque si sottintende la tesi che ogni terremoto e ogni disgrazia umana siano ascrivibili al cinismo, all’imperizia e alla responsabilità della politica, e in ogni caso dell’essere umano. Ma, all’enunciazione, seguono solo considerazioni e argomenti gratuiti. Il sisma di Casamicciola del 1883 e quello di Messina del 1908 sono colpa dell’uomo? Arminio è interessato a comunicarci che è stato in Camerino. Dopo il sisma dell‟ottobre 2016. “C’è un silenzio clamoroso a Camerino….Cavoli e cavolfiori sono a loro agio nella neve... Nello spazio esterno non parla nessuno, sensazione di un lutto. La salma è in alto, è il paese antico… Niente è custodito, la polvere è come la neve… A un tavolo c’è un monaco francescano, porta sul saio un piumino da neve, ha la barba lunga e uno sguardo lontano dalle cose della terra… vado a pranzo col rettore. Parliamo della lentezza della ricostruzione; a un certo punto, “noto un rivolo d’acqua che scorre sul ciglio della strada…Sa di fresco e vivo, sa di qualcosa che può essere portato alla bocca nonostante l’asfalto. Cerco disperatamente il volo di un uccello, un frutto beccato su un albero, una piccola cosa straordinaria che mi dia il senso dell’eternità”. I cavoli, la neve, il rivolo domiciliano nella lentezza, e stridono con l’esigenza di celerità ricostruttiva manifestata dal rettore. Qui, come altrove nel libro, non si comprende da che parte sta l’Autore. Vengono in mente le impertinenti parole di Giovanni Raboni: “Niente è più rassicurante e più euforizzante di una sequenza di parole che dà l’illusione del senso esonerando dalla fatica del senso”.
Recitano alcuni versi della prima parte del libro: “L’Irpinia e le sue alture./ Su un pugno di neve/la rosa gelata di un paese”. Si dice che l’arte in generale, anche quella poetica, serva a mutare l’invisibile in visibile: la versificazione non restituisce né l’immaginazione dell’irreale, né, tanto meno, la rappresentazione del reale. Castelnuovo di Conza, 23 novembre 1980 ore 19.34: Mario - in un istante - perde tutto. Viene estratto dalle macerie vivo. Non altrettanto accade per la moglie, i figli e la madre. Arminio ne racconta laicamente la storia di sopravvissuto, che decide di ritornare a vivere nel luogo natìo, confidando in una supposta, immanente tragicità della vicenda. “Mario torna a Castelnuovo… Lui va ogni giorno nella zona dove abitava. Il dolore non gli ha chiuso il cuore. Dopo quarant’anni Mario vive nel prefabbricato per sua scelta. Non si è mai voluto spostare da lì… Mario mi mostra la lapide di Michele Strollo, l’uomo che sentiva parlare mentre era sotto le macerie, quello che cercava il suo asino. Lui è morto molti anni dopo. Ogni faccia è una storia”. Ancora una preziosa testimonianza e un buon resoconto giornalistico. Tentativo di trenodia insuscettibile di innalzarsi a lirica o elegia, men che mai a prosa d’arte narrativa. Nè modernismo né postmodernità.
Vito Teti ci ha avvertiti contro il rischio della “sindrome del cuculo” che colpisce i moderni e tardivi flaneur di un mondo perduto e che consiste nel “distruggere i mondi quando sono in vita per poi piangerli e rimpiangerli quando sono ormai defunti o moribondi” e “restare indifferenti alla scomparsa dei luoghi, paesi, boschi per poi procedere all’inventario, lacrimevole preludio di una miracolistica e truffaldina resurrezione”. Tesi specificamente ripresa da Giuseppe Lupo nel recente e pregevole libro “La Storia senza redenzione”, il quale precisa che “il pericolo su cui Teti mette in guardia è lo stesso che si intuisce nell’approccio di una certa letteratura che celebra i paesi abbandonati incorniciandoli in un epicedio tanto nostalgico quanto ingannevole. Sono persuaso che questo approccio non sia la soluzione originale ai problemi dell’entroterra meridionale e nasconda, piuttosto, la superficiale declinazione di un levismo in chiave postmoderna”.
I disastri non risparmiano nessuno, sono democratici e ugualitari. Così, guardando fuori dall’Irpinia, anche il piccolo Benedetto Croce fu superstite del richiamato movimento tellurico ischitano; mentre Gaetano Salvemini fu attinto dal disastro di venticinque anni dopo di Messina, dove - almanacca grave l’Autore – “accade il terribile, il terribile che tanti riescono a schivare, arrivando a consegnarsi alla morte senza che sia successo niente di particolare nella loro vita”. Pare un’allusione malriuscita all’Edipo sofocleo. Non è stato raggiunto l’annunciato e ambizioso proposito di indagare i rapporti tra Uomo e Natura, tra Uomo e Destino, tra Dolore e Memoria. Sono mancati - in una parola e per il profilo letterario che qui interessa - il Tempo e la indeclinabile diacronia di questo.
Il reportage rimane tale e non si evolve in prosa letteraria se il fattore temporale preso in considerazione è unicamente quello cronologico. Il testo – come si ricava dai brani sopra riportati - non si è mai emancipato dalla pura successione (cronachistica) degli eventi catastrofici, né il monotonale codice espressivo si è allargato alla polifonia necessaria a strutturare i sopravvissuti o le vittime in personaggi dotati di tragicità. Nessuno di questi è presentato in maniera introspettiva, di nessuno si sa o si può immaginare il vissuto del tempo interiore. Il che spiega pure l’assenza nel libro di genuina scrittura odeporica. Raccontare la bellezza del paesaggio o la malinconia delle rovine o la tristezza dei borghi declinati, a maggior ragione quando vi sia l’intenzione utopica o meno di recuperarle, presuppone, più che la conoscenza dei luoghi, la cognizione della poliedrica dimensione temporale ed un registro lessicale meno succube dei clichès.
Come è stato magistralmente affermato (A. Cesaro), il vissuto di qualsiasi esperienza sociale o culturale dovrebbe consentire al soggetto che ne è protagonista di superare “la soglia della rappresentazione” di una realtà esterna percepita, conducendolo ad esplorare anche l’immaginario e il simbolismo ctonio. Altrimenti: come fa, chi non c’era, a capire quello che hanno pensato e fatto coloro c’erano? Come fai “Tu che durante il terremoto non c’eri, a sapere che a noi è andata male” perché “non siamo riusciti a imprimere la direzione che volevamo alla storia dei nostri luoghi?”.
A proposito di Craco, il suggestivo comune materano colpito da una frana all’inizio degli anni 80, nel libro si anticipa che “è una delle tante Pompei del Novecento” e si conclude che “è la cappella Sistina dell‟abbandono” Difficile, se non impossibile, intelligere il significato di queste asserzioni sospese. Della recente visita (4 dicembre 2020 ) a Cairano, viene riferito che “la strada è sempre quella, stretta e arginosa, ma non passa nessuno… Salgo verso la parte alta del paese, quella dove c’è la rupe che a suo tempo chiamavo la rupe dell’utopia… A me sembra che paesi come questi siano delle ciambelle di salvataggio. Quando la pressione del mondo si fa insopportabile, te ne puoi sempre venire qui per qualche ora di scampo. Meglio stare dove non c’è nessuno”. Allora, ben venga lo spopolamento? Eppure, bastava dire che Cairano è chiamato “‘o paese mozzecato”, e in ogni lettore si sarebbe suscitata la inesorabile quanto cruda curiosità di sapere e vedere perché.
Purtroppo, così non si apre “il cantiere della fiducia” né si può “avere un paese”, nonostante l’autorità indiscussa di Pavese. Maggiore efficacia narrativa avrebbe avuto – immaginiamo – il racconto degli avventori de Il Grillo d’Oro prima del terremoto del 1980, di che tipi fossero o apparissero, di che emozioni si nutrissero, di che linguaggio usassero. E qualche notizia in più sull’Oste e sulla fisiognomica stupendamente dickensiana di Questo sarebbe stata sommamente gradita, anche perché accogliere il viandante con un intero caciocavallo oppure occupare l’intera superficie del tavolo con un piccione imbottito era ed è originale esperienza impressionista. Un po’ più di autobiografia avrebbe stimolato, a beneficio del lettore, la cosiddetta metacognizione. Non desti meraviglia che la introduzione del libro venga affrontata per ultima. Esordisce Arminio in quella che chiama caco fonicamente nota d’avvio: “Si scrive perché non sappiamo cosa scriveremo”. Un incipit sgraziato tale da indurre la rinuncia alla lettura o, quanto meno, il dubbio sulla meritevolezza della stessa.
Del resto, con un articolo sul Corriere della Sera dell’11 settembre 2020, il Nostro aveva esposto in nuce la “sua” poetica, in particolare sulla funzione della letteratura e sul rapporto tra questa e il Tempo, a tenore della quale: “I libri devono parlare della vita in cui siamo immersi, della vita che il giorno dopo non è più la stessa del giorno prima. Non capisco perché di fronte a una mutazione inaudita in atto nel mondo la letteratura debba rimanere tale e quale. Un mondo che si è fatto velocissimo richiede una letteratura semplice e breve, diretta e limpida. Semplicemente bisogna prendere atto che oggi nessuno ha tempo da perdere con la letteratura che non sa consolare, non sa orientare. Le persone non leggono, ma se leggono vogliono essere consolate e orientate. Non siamo tenuti a farlo, ma se vogliamo tenere in vita l’esercizio letterario dobbiamo tenere conto dello spirito del tempo”.
Tale concezione paternalista e funzionalistica della Letteratura può aiutare nella esegesi della scrittura da vagliare, ma non l’assolve da un giudizio critico. E, naturalmente, non ci trova d’accordo perché – per noi – la letteratura, a differenza dell’ottimo giornalismo narrativo, non deve orientare né consolare. E assolutamente non deve seguire lo Spirito del Tempo. Tra l’altro, che noi ricordiamo, la Letteratura ha sempre precorso, e concorso a formare, lo Zeitgeist e, financo, il Volksgeist.