Pino Daniele nel docufilm di Verdelli

Il tempo resterà: il ricordo del cantautore tra testimonianze e melodie

    di Antonio Di Dio

“Il tempo resterà” di Giorgio Verdelli è il primo docu-film dedicato al cantautore napoletano Pino Daniele, scomparso nel gennaio del 2015 all’età di 60 anni. Il documento che ci viene restituito dal regista cerca di approfondire alcuni aspetti del vissuto del cantante, che ha mescolato come pochi una straordinaria bravura allo strumento con dei testi di notevole bellezza e fattura. L’opera cinematografica, nonostante attraversi quasi tutta la produzione artistica del cantante, fino ad arrivare agli ultimi concerti tenuti dallo stesso pochi mesi prima della prematura scomparsa, si concentra in particolar modo sui primi anni della produzione del cantautore, sintesi, a cavallo tra la fine degli anni '70 e per tutti gli anni '80, di una scena musicale underground, che mescolava jazz, blues e influenze provenienti dalla tradizione popolare napoletana, musicale e non, creando un nuovo genere musicale, espressione di una Napoli multietnica e sperimentale, avanguardista potremmo definirla.

Verdelli ci riporta indietro nel tempo attraverso le voci e le melodie, come un nastro riavvolto e portato alle origini del mito, descrivendoci la grandezza che stava dietro l’idea di un certo tipo di musica, di un’energia creatrice, una “tensione evolutiva” che probabilmente solo un napoletano, un figlio del sud come Pino, nato e cresciuto nei quartieri adiacenti al porto poteva partorire. Un nuovo genere nato grazie all’incontro con musicisti storici della Napoli di quell’epoca, anch’essi figli di quella “terra mia” come amava definirla Pino, da James Senese a Rino Zurzulo, da Tullio de Piscopo a Enzo Gragnianiello, suo compagno di classe alle elementari, componenti storici della prima band a cui Pino prese parte alla fine degli anni '70 come “Napoli Centrale” e non solo, per poi dedicarsi alla sua musica in solitaria, come chi vuole misurarsi con il peso delle proprie scelte musicali e testuali, iniziando quella che sarebbe stata una lunga carriera, costellata di grandissimi successi discografici e collaborazioni illustri, tra cui non si può dimenticare quella con Eric Clapton e Pat Metheny, che da sole basterebbero a giustificare il ricordo cinematografico del mito Daniele.

Partecipano con testimonianze, a tratti emozionanti, che offrono spunti di riflessione importanti, di chi Pino Daniele l’ha solo sfiorato: Ezio Bosso, Massimo Ranieri, Giorgia, Jovanotti, Eros Ramazzotti ma anche chi, come Enzo de Caro e Claudio Amendola, erano legati all’artista da una profonda stima che andava, probabilmente, al di là della sua musica. Ricordi di un lazzaro felice, di un artista profondamente segnato da un passato che lo ha reso introverso, schivo, con una “balbettante” reticenza a mostrarsi in pubblico senza una chitarra tra le mani, un animo che solo la musica ha potuto mostrare al mondo, in cui l’uomo viene fuori nel suo essere poeta visionario, come quando decise di andare a Tunisi e dedicarsi a nuove esperienze musicali con l’album Medina. Pino che ha avuto la capacità di unire con i suoi testi una Napoli profondamente spaccata, una Napoli che aveva bisogno del suo Masaniello per denunciare aspetti del vissuto quotidiano che a molti sfuggivano (“Napule è”  e “Na tazzulella e cafè”) e che in molti facevano finta di non vedere. Forse il pregio maggiore è stata la capacità di cogliere nella denuncia la speranza, nella diversità una possibilità di crescita, nella semplicità la bellezza.

Al di là dell'aspetto artistico, dove la musica si fa punto d’incontro di un popolo che insieme si ritrova e si abbraccia attraverso un’identità comune, che la stessa Napoli nella sue profonde contraddizioni mette in pericolo costantemente, l’opera di Verdelli è coraggiosa e apprezzabile, a tratti notevole e in altri precaria, ma probabilmente paga lo scotto di un artista troppo grande per poter entrare in sole due ore di pellicola. Nonostante ciò, il pregio maggiore del “film” sta nell’aver avuto la brillantezza e la lucidità, non offuscata dal mito, di aver mostrato un Pino diverso, che non si racconta da sé, ma che viene mostrato da chi lo ha vissuto, ed è questo che ha reso l’uomo artista e viceversa: la capacità di essersi circondato durante la sua carriera di persone che volevano parlare al pubblico, che avevano delle storie da raccontare per farci “ sognare ancora”, come la profonda amicizia con Massimo Troisi, anche lui scomparso troppo presto regalandoci, probabilmente, una delle più belle canzoni d’amore mai scritte.





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