Vito Mancuso, l’enigma

Intervista ad uno dei teologi più letti e controversi della contemporaneità

    di Roberto Rosano

L’incontro avviene in un distinto albergo di Torino, a pochi isolati da piazza San Carlo. Un delicato condensato di gusto e fantasia, eleganza e sobrietà. Del resto, non avrei mai immaginato il professor Mancuso in un posto di lusso, ma neanche in un posto senza grazia. Chiedo di lui ad un uomo di mezza età, che solleva una cornetta e gli sussurra: professore, c’è giù ad aspettarla… Cerca da me un’imbeccata. Rosano, Roberto, per l’intervista. Rosano, Roberto, per l’intervista, ripete lui. Riaggancia. Si accomodi pure, mormora, indicandomi l’atrio.

È assai delizioso, l’atrio: un salotto in stile provenzale, con squisiti divani floreali, poltrone a quadretti, mobili in ciliegio, lampade di porcellana bianca e blu con tenui decorazioni orientali. Una grossa vetrata, pulitissima, con le tende aperte, a mostrare un bel cortiletto interno con uno splendido foliage autunnale di edera, di aceri e di ortensie. In sottofondo, un rilassante soul jazz. Una giovane donna, vestita alla parigina, con belle lentiggini brune, sta sfogliando una rivista, senza alzare mai gli occhi. Un anziano beve una tazza di tè con lo sguardo rivolto alla vetrata. Sento la voce del teologo, gli vado incontro. È più alto di quanto mi aspettassi, ha un vago aspetto da giovane della beth midrash: magrolino, naso adunco, sorriso sincero, sguardo pulito. â€‹Che piacere, esclamo, non sa quante volte mi sono addormentato coi suoi libri sulla faccia! Ci stringiamo la mano, tra cianciosi convenevoli, e ci mettiamo a sedere, sorridendo: io su uno dei divani floreali, lui su una delle poltrone a quadretti. 

Professor Mancuso, Lei di chi è figlio?

(Tace per almeno dieci secondi). Mi fa venire in mente la laminetta orfica… Una laminetta trovata in Calabria, a Vibo Valentia. Una laminetta dorata che conteneva le parole che l’anima avrebbe dovuto dire al cospetto dei guardiani delle porte del cielo: sono figlio della terra e del cielo stellato. Dunque, io di chi sono figlio? Ovviamente sono figlio di Paolo e di Arcangela, però non ho pensato a mio padre e a mia madre o ai miei maestri. Ho pensato a quella laminetta. Sento dentro di me un forte radicamento alla materia, alla terra, alla natura, in tutte le sue manifestazioni, un grande amore per... Per le pietre, per gli elementi, per gli alberi, per il mare… 

Ma

Ma sento anche una spinta verso l’alto, verso una quintessenza, che non fa parte degli elementi naturali. Quindi, sono sbilanciato…

Estraggo un libro dalla mia valigetta, Questa vita, del 2015, leggo: Ad Arcangela Ragona, mia madre, Etz hayim, Arborvitae… Ripongo il libro nella valigetta e ne estraggo un altro: L’anima e il suo destino, 2007, leggo: Alla memoria di Paolo Mancuso, mio padre…

Persone molto semplici, figli della Sicilia…

Di dove?

Di Calatafimi Segesta, in provincia di Trapani. Mia madre aveva il padre di Alcamo ed, infatti, fin da bambino ero contento di poter dire che mio nonno veniva dal posto dove nacque la poesia italiana, il Contrasto di Cielo d’Alcamo. Sua madre, mia nonna, invece, era di Castellammare del Golfo. Mio padre era un muratore, una persona molto concreta, molto forte, severo, forte,ambizioso. Infatti, arrivò in Lombardia, dove io sono nato, senza nulla e riuscì ad avere un discreto successo economico nell’edilizia. Si occupava di manutenzione degli stabili, riparava. Poi acquistò un negozio.

Un negozio?

Di musica. Di dischi, cassette. Lo portava avanti mia madre, però. Ha sempre lavorato mia madre. Faceva anche la sartina, l’operaia… 

Che bambino era?

(Abbassa lo sguardo. Intuisco una vaga reticenza nella sua intonazione). Ma… I miei ricordi d’infanzia sono legati ad una certa sensazione di essere fuori posto. Mi chiamavo Vito Mancuso e sono nato a Carate Brianza, una dissonanza immediatamente percepibile per un orecchio italiano. Ho ricordi di questo tipo: il crescere, il diventare consapevole di non essere al posto giusto. (L’impianto stereo casualmente attacca un accorato spiritual da campo di cotone dell’Alabama). Eravamo noi gli stranieri a Milano. Non voglio dire che abbia avuto un’infanzia perseguitata, ci mancherebbe. Ho avuto anche tanti amici, però… Ricordo anche ferite, insulti, emarginazioni… Alla Lombardia devo una certa etica del lavoro, quello sì. 

E dove sono le sue pietre? In Sicilia o in Lombardia?

Ma io non mi sento siciliano, come non mi sento brianzolo. Non mi sento, ecco. (Ride).

Come Le è venuto in mente di farsi prete?

In Brianza l’oratorio e la chiesa avevano una grande importanza. Ho conosciuto dei preti straordinari, colti, appassionati. Il mio professore di religione al liceo, per esempio. Cosa devo dirle… In realtà, la mia vera vocazione è sempre stata lo studio teologico, lo studio del senso della vita, perché questo deve fare la teologia, se è in grado di farlo. Adesso ci sono altre cose che dovrei dire, ma lasciamo perdere… Incontrai un libro di Küng, Dio esiste?, si chiamava così. Facevo il liceo e ricordo che mi appassionò moltissimo. Mi dissi: ma io voglio fare questa cosa qui!

Anch’io sa ho avuto un momento mistico

Sì? E poi…

Poi arrivò la filosofia, arrivò una certa ragazza, un po’ stupidina, ma caruccia, e poi arrivò Lei…

Lei chi? Io?

Sì, Lei, Lei. Mi arrivò un suo libro, che si chiamava Disputa su Dio e dintorni, se lo ricorda?, e prese il mio Dio vecchio, onnipotente, geloso, vendicativo, austero, col suo sacramentario, le sue acquasantiere ed anche certi, non tutti, dico certi, suoi preti di grande dottrina e poco cervello e ne fece “un gran falò”!

Spero sia rimasto qualcosa, però…

È​ rimasto l’essenziale: una piccola croce su un monticello di Gerusalemme a ricordarmi d’essere compassionevole... E poi, quel Discorso della Montagna… Quanto è bello quel Discorso, eh, professore! Ricordo ancora lo stupore di quando, da ragazzino, Genoveffa, la mia catechista, lo lesse: sentii chiamare “beati” una serie di sbandati e sfigati e dissi: questo Gesù mi piace! Ma torniamo a Lei, Le moi haïssable… Lei invece è andato fino in fondo con questa storia dei preti!

Divento prete a 24 anni e, a distanza di un anno, ho chiesto di essere dispensato dall’attività pastorale e di dedicarmi solo agli studi. Capii, soprattutto per ragioni affettive, di non essere portato per la vita da celibe. Poi è arrivata la dispensa, il matrimonio con Jadranka e poi sono nati Stefano e Caterina e poi… E poi…

Se non fosse esistito il celibato ecclesiastico, pensa che sarebbe rimasto prete?

Può essere. È difficile parlare nel periodo dell’irrealtà, però è probabile.

Che ricordi conserva, invece, del seminario, dei compagni seminaristi?

Ottimi. Sono stati cinque anni fantastici. Io non ho sentito neanche un momento tutte le problematiche a cui qualcuno ogni tanto accenna. Mai, mai, mai! Mai visto nulla di particolare. I professori qualcuno eccellente, qualcuno no, ma questo è normale. Un ambiente raccolto, dove potevo studiare e a me studiare piace tantissimo. Un padre spirituale, cose semplici. I compagni: qualcuno bravo, qualcuno meno, qualcuno è ancora mio amico. Qualcuno è ancora prete, qualcun altro no.

E di Carlo Maria Martini che ricordi conserva?

Ricordi ancora più belli. Lui accoglieva nel grande appartamento del suo Arcivescovado i diaconi, al quinto anno di teologia. Si passavano due, tre giorni, a casa sua. Si stava con lui, si mangiava con lui, si andava in giro con lui alle visite pastorali. Non era però la prima volta che lo vedevo. Nel 1980, Carlo Maria Martini era stato nominato arcivescovo di Milano. C’era un treno speciale della diocesi di Milano per andare a Roma a seguire l’evento dell’ordinazione ed il prevosto scelse me ed un altro per andare a rappresentare la nostra parrocchia. Lì l’ho visto per la prima volta. Ero tra quelli che cantavano O mia bela madunina e lì mi diedero una figurina con il motto episcopale di Martini.

So che l’aveva persa, l’ha ritrovata.

(Annuisce). L’ho ritrovata, l’ho ritrovata: pro veritate adversa diligere, per la verità, amare le avversità, un motto meraviglioso, tratto dalla Regola di San Gregorio Magno.

Dov’era finita?

Non ricordo, ma so dov’è adesso. L’ho messa nel Meridiano che la Mondadori ha dedicato a Carlo Martini. Quindi, quando ne ho bisogno, è lì, so dov’è.

Ho letto una lettera che Martini Le ha scritto a commento de L’anima e il suo destino, che Lei ha posto all’inizio del saggio. Dice: Carissimo Vito, hai avuto un bel coraggio… È​ coraggioso Lei, professore? Non ha mai temuto che la Congregazione per la dottrina della fede, l’Organismo della Curia Romana che ha preso il posto del Sant’Uffizio, prendesse provvedimenti nei suoi confronti come accaduto ad alcuni suoi colleghi, Küng, Fox, Boff…?

No, non mi sono mai preoccupato. Certo definire me stesso coraggioso… Sicuramente ho sempre accettato dibattiti con chiunque. Ricordo una volta a Roma, all’auditorium della scienza. Mi chiamarono ed io dissi di sì ad un pubblico dibattito con Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Telmo Pievani e Marcello Cini. Insomma, immagini quattro uomini di scienza, atei tutti e quattro e poi c’ero io. Per cui non so, ho la forza delle mie idee. Sono convinto di una cosa scritta da Platone nel suo "Sofista": la confutazione è la più grande delle purificazioni. Se vieni confutato, alla fine ci guadagni perché capisci che un’idea che avevi era un errore. 

È​ un po’ come fare le pulizie di primavera, gettare via qualcosa, creare un negative-space, un vuoto da riempire, se necessario, con nuove acquisizioni, nuovi aggiornamenti…

Sì difatti io stasera, alla Torino Spiritualità parlerò delle eresie…

Se rischiasse di finire su un rogo di Campo dei fiori, sarebbe così audace?

Be’, tante volte mi chiedono, ma Lei nel ‘500, ma Lei nel ‘600…E chi lo sa? Certo, io adesso non rischio niente a dire quello che dico. Anzi, in alcuni ambiti ho persino applausi. Un tempo si perdeva la vita.

Quella lettera di Martini continua, io l’ho artatamente interrotta, ma continua: Carissimo Vito, hai avuto un bel coraggio a scrivere dell’anima, la cosa più eterea, più imprendibile che ci sia, tanto che si giunge a dubitare che essa esista. Cos’è l’anima, professore? Come lo spiegherebbe a mia nonna?

L’anima è la vita. Semplice. È il principio della vita. È ciò che rende un oggetto animato. La poltrona su cui sono seduto è inanimata. Io sono un essere animato. Se ci mettiamo a ragionare su ciò che compone strutturalmente la poltrona ed il mio corpo,troviamo particelle subatomiche, atomi, molecole. Cosa succede? Che si muovono. (Batte le mani sui braccioli della poltrona). Non è che questa poltrona sia stabile. Non c’è niente di fermo, non  c’è niente di impenetrabile, tutto continuamente si muove. Io non riesco a penetrare questa poltrona, ma un raggio sì, un raggio passa. Sembra dura, ma in realtà è dura perché c’è una tale velocità degli elementi che la compongono, che girano così tanto,da rendere questa cosa una parete. Ma l’atomo è vuoto, la grande massa dell’atomo è vuota. Tutto vortica. Ma che succede? In alcuni corpi, il totale dell’energia che li compone è totalmente solidificato nella massa corporea. Quindi hai la formula che definisce la poltrona Et (energia totale) meno energia solidificata nella massa corporea…

Lei la spiegherebbe così a mia nonna l’anima?

Diciamo allora, per semplificare, che nei viventi il totale dell’energia non si esaurisce completamente nella massa corporea: Et (energia totale) – Em = x. Questa incognita è ciò che dice che questa energia è libera e consente ad un oggetto di muoversi e, quindi, di essere animato. Questa che io chiamo energia libera, e non solo io, si trova usata anche in ambito scientifico inErwin Schrödinger, ad esempio, nel libro Che cos’è la vita, per dire la possibilità che un oggetto si muova, che un oggetto sia animato e, quindi, che cos’è l’anima? È il principio della vita, è ciò che consente ad un oggetto di essere vivente. La vita si stabilisce sulla base di tre cose, la prima delle quali è il movimento, poi hai la nutrizione e la riproduzione. Queste sono le tre caratteristiche che differenziano un vivente da un non vivente. 

La vita è un incidente? È qualcosa che capita, così, come questo volantino dell’albergo è capitato nelle mie mani?

Cosa vuole che Le dica. Io mi rifaccio sempre al confronto tra due premi Nobel per la medicina, tutti e due biochimici, i quali, a partire dai medesimi dati che riguardano la vita, sostengono ipotesi opposte. Il primo di questi è Jacques Monod, che scrive Il caso e la necessità e scrive che la vita è un incidente, qualcosa che è avvenuto per assoluto caso, in un universo che con la vita non ha nulla a che fare. E poi un altro premio Nobel, Christian René De Duve, biochimico belga, che dice: no, la vita non poteva non nascere e scrive il libro: Vital DustPolvere Vitale. Sottotitolo: La vita come imperativo cosmico. Cioè: la vita non è assolutamente un incidente, la vita è quello che l’universo è obbligato a fare. Se ci si ferma alla ragione e ai dati scientifici, può avere ragione l’uno e l’altro. Cos’è che entra in gioco a questo punto? Secondo me, l’intuizione, il sentimento. Il proprio sentire. Io tra i due, non ho dubbi: per me ha ragione De Duve.

Lei ha scritto che noi viviamo in un universo fertile, bioamichevole…

Sì, è un universo nel quale la vita, che vuol dire la mente (perché non c’è solo la vita, c’è la vita che sa di vivere!) non è un incidente. Non è un incidente. 

Dunque, la vita è un evento già deciso, previsto nel programma di qualcuno, di qualcosa?

Dico che c’è una tensione che attraversa tutte le cose, che ha prodotto la vita. C’è una tensione della materia verso un’organizzazione. 

Le vengono affibbiate grossomodo due etichette: l’evoluzionismo teologico e l’emergentismo… Le piacciono queste etichette?

Beh, l’emergentismo è la mia visione, io vedo che qualcosa emerge e non solo emerge, ma emerge in maniera tale da potersi collocare come sapere. Come sapere consapevole di questo viaggio. Emerge come mente, emerge come cuore. Io non ho niente da dire a chi dice che questo è un caso, che poi vuol dire alla fine interpretare sé stesso rispetto al mondo come straniero, come assolutamente casuale oppure come parte di una patria, di un mondo che assieme a me cerca e di cui io sono la coscienza. Sono convinto che l’umanità sia il luogo in cui l’universo prende coscienza di sé. (L’impianto stereo passa una magnifica sonata di sassofoni). C’è questa grande fabbrica che chiamiamo universo, le cui dimensioni sfuggono alle capacità della mente, che continua ad espandersi, ad espandersi, ed è certamente caotico, spaventoso,e poi trova consapevolezza di sé in una propria manifestazione, perché noi da lì veniamo!

Quindi, per Lei l’umanità è il momento in cui l’universo, che si evolve, prende coscienza di sé. L’uomo cosciente è la tappa evolutiva con la quale l’universo acquista la consapevolezza di esistere. Questo è l’emergentismo…

Prendo sì, molto seriamente il termine evoluzione, pur essendo un teologo cattolico, e lo intendo nel senso di un processo orientato verso il meglio. Non solamente un cambiamento, ma un cambiamento verso il meglio. Il contrario, cioè l’involuzione, è un cambiamento verso il peggio. Io vedo che la storia naturale, culturale, per lo meno sul pianeta Terra, è un’evoluzione, seppure non lineare. A volte per andare avanti, devo tornare indietro e ci sono momenti di catastrofi, di caduta, di ritorno, di regresso, momenti di dolore inspiegabili, di assurdità, però poi si va comunque verso il meglio…

È questa un po’ la visione dell’Angelus Novus di

L’Angelus Novus di Klee mi sembra più una visione catastrofica, io cerco di contenerla. Nel senso dell’angelo che si ritrae perché la storia è semplicemente solo negatività. Quella mi sembra una visione della linea retta al contrario, la visione di Esiodo, la visione della storia come un’eterna catastrofe: c’è l’età d’oro, l’era d’argento e così via…

No, io mi riferivo all’interpretazione che il filosofo ebreo Walter Benjamin dà del quadro di Klee, esprimendo una visione della storia simile alla sua: non lineare, ma due passi avanti, uno indietro. Ogni tanto si va indietro per andare più avanti, perché magari nel passato c’è qualcosa di dimenticato e che dovrebbe essere ripreso, sviluppato. Eppure l’angelo guarda sempre avanti, lasciandosi alle spalle cumuli di macerie.

È la concezione a spirale della storia. La spirale sale e scende. Sarà un caso che nel nostro codice genetico questo DNA ha una forma a spirale? E le galassie hanno una forma a spirale? Io non penso che sia un caso. Penso che l’idea del macrocosmo e del microcosmo, quest’idea che nell’uomo si riproduca la stessa dinamica dell’universo, questa idea antica, diffusa in tutte le grandi culture, dalla Cina, all’India, al Rinascimento Italiano abbia la sua legittimità. 

Lei ha già detto che nulla è stabile, che tutto si muove, che tutto  evolve, anche l’universo, mentre ne stiamo parlando con questa bella sonata di sax in sottofondo, si sta espandendo. Lei ha detto che l’essere è energia, non sostanza, perché nulla è mai inerte, nulla è mai in sosta. Sto citando Questa vita, un suo saggio del 2015. Perché? Si può sapere perché non si ferma? Perché non s’accomoda e ci lascia tranquilli?

Perché nulla è mai arrivato a destinazione. Siamo all’interno di un processo. Voglio usare un’espressione teologica: siamo parte di una creazione continua, il cui esito non è garantito, possiamo anche fallire. 

Lei, però, prima ha detto che tutto è organizzato perché si vada verso il meglio, adesso mi dice che l’esito non è garantito… Poi, scusi, professore: questa idea della creazione continua mi fa un po’ ridere. Perché Dio ha dovuto rimandare così a lungo nel tempo l’adempimento di questo nostro mondo? Perché avrebbe dovuto creare il Mondo in miliardi di anni, invece che in sei giorni, o in un secondo, bell’e fatto e pronto all’uso?

Beh, scriva un whatsapp a Dio e veda se Le risponde. Io non so perché Dio abbia pensato così. Il Dio classico, quello del teismo, il Dio che vede e provvede tutto, io l’ho già abbandonato da tempo.

Sì, ma mi ha appena detto “non so perché abbia pensato così”! Di chi parliamo? 

Io penso che il Principio di tutte le cose, che solitamente si chiama Dio, creando il mondo, questo mondo, abbia previsto l’imponderabile, l’imprevedibile, l’indeterminato, la libertà.

Ma chi “ha creato”, chi “ha previsto”? Lei prima mi ha detto che ha abbandonato l’idea del teismo, di un Dio che vede e provvede e lo ha trattato come un Principio e non come una persona, adesso mi dice che “creando il mondo, ha previsto la libertà”. Ma chi? Di chi stiamo parlando? Di un Dio persona, che quindi ha un progetto, ha un’intenzione, provvede? Il Dio di mia nonna? O di un Principio presente già nel mondo e che quindi non fa, non prevede, ma “si fa” insieme al mondo, perché è mondo a sua volta?

Ma, vede io capisco il suo sgomento, le sue perplessità, perché Lei come me è stato educato a pensare a Dio secondo i parametri del teismo, ma…

Io prima Le ho fatto una domanda, che forse non ha notato: Le ho chiesto se la vita fosse un evento già deciso in un programma, in un progetto, di Qualcuno o di Qualcosa. Le pongo di nuovo la domanda: nel programma di qualcuno o di qualcosa? Ho bisogno di capire, dopo tanti anni che La leggo, se Lei, al di là dei dispacci di fede che a parole si possano fare, crede o no in Dio. E se sì, in che Dio crede, in un Dio trascendente, immanente, in un Dio personale o impersonale?​

Io penso che sia, diciamo così, sia personale che impersonale. Da qualche parte nei miei libri, riporto una bellissima espressione di Heisenberg, il quale racconta che una sera, a Copenaghen, passeggiava assieme ad un altro fisico, anche lui premio Nobel, che si chiamava Wolfgang Pauli. I due erano stati invitati da Niels Bohr per ragionare sulla scuola di Copenaghen, sui fondatori della fisica quantistica. Pauli chiede ad Heisenberg, di cui conosceva la fede: ma è vero che tu credi in un Dio Personale? In che senso credi in un Dio personale? Heisenberg dice: guarda, tu mi chiedi questa cosa, ma io riformulerei la domanda in un’altra maniera e cioè: posso rivolgermi a Dio in maniera personale e giungere ad avere con Lui lo stesso contatto che ho con l’anima di un’altra persona? Ecco questa è la domanda giusta. Noi siamo al cospetto di una potenza che ci avvolge, dentro la quale siamo, camminiamo, di cui è presuntuoso pensare se è personale o impersonale. Queste sono delle nostre categorie... Cosa vuol dire personale?

Uhm, Le faccio un esempio. Non so se Lei ricorda una frase che si attribuisce a Henry Kissinger: chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa? Io Le  chiedo: chi devo chiamare se voglio parlare con Dio? Si ha l’impressione che il suo Dio e quello di cui parlano altri teologi, che si arrovellano per parlare di Lui in maniera ragionevole pur di accordarsi con la scienza, sia diventato incomprensibile ad un cervello che non mastichi un po’ di filosofia o di fisica. L’impressione che si ha ascoltandovi e leggendovi, è la stessa che ha il vigile, ascoltando il conte Mascetti: un’insieme di parole esposte in modo ingannevolmente forbito e sicuro, che alla fine il povero interlocutore accetta come corrette, senza averci capito un corno, ammesso che vi sia qualcosa da capire. Non è più bello il Dio di mia nonna rispetto al nostro Dio – nonsense?

Davvero era più bello? Non lo so io questo! La situazione di non sapere che numerino fare sulla tastiera del telefono per chiamare Dio è perfetta. È la situazione della mente che Niccolò Cusano, riprendendo l’espressione di Sant’Agostino chiamava: dotta ignoranza. È una situazione che caratterizza la mistica: Dio abita dove non giunge la comprensione, scrive Gregorio di Nissa nella Vita di Mosè. Se hai capito non è Dio. Io penso che coltivare la domanda per il senso, per la giustizia, per la bellezza, per la verità, è questo che porta gli esseri umani a rivolgersi a Dio autenticamente, poi c’è chi si rivolge a Dio in maniera inautenticaattraverso la superstizione. È più bello un Dio visto attraverso la lente della superstizione? Chi si rivolge a Dio autenticamente, invece, e mi pare di capire che Lei sia tra questi, è alla ricerca di una patria per il proprio cuore, per la propria anima, perché ha fame e sete di giustizia per riprendere il suo adorato Discorso della Montagna. Bisogna stare al cospetto del Mistero, pregare senza dire per forza qualcosa, stare in silenzio.

Lei si rivolge mai a Dio?

Ma certo. Quando io dico Padre, dico Padre. Quando prego, a volte dico Padre, Padre, Padre Nostro! Non mi rivolgo più, però, al Dio con la barba bianca della Cappella Sistina, ma lo immagino come quel principio che ha prodotto anche la mia possibilità di essere persona. Mi capisce? Se io sono giunto ad essere persona, io, ed anche Lei, che in questo momento si infiamma perché dice: ma chi lo capisce questo? È la sua personalità che si sta agitando ed anche la mia. Siamo persone, abbiamo un’idea, una coscienza, un carattere. Questa cosa da chi viene: dal mondo. Ci ha prodotti il mondo così. Credere in Dio significa credere in un principio che ha messo in moto questa cosa. Il Principio che ha messo in moto questa cosa è meno potente di me? Io ho una personalità e Lui no? Mi sembra poco plausibile. Dopo di che però credo anche che sia al di là di tutto ciò, cioè non sono così ingenuo da pensare che sia una persona esattamente come lo sono io, perché sarebbe limitato. 

Dunque, c’è un “orecchio” che ascolta? Lei mormora all’ “orecchio” di Dio qualcosa, una richiesta ad esempio?  

Certo. A me capita di chiedere protezione. Io una volta chiesi a Martini, era già a Gallarate dove morì il 31 agosto 2012, nella casa di studi dei gesuiti. Gli chiesi: padre, Lei come prega? E lui disse: io ormai prego solo per gli altri. La preghiera di supplica, di intercessione, questa era la parola che a lui piaceva molto. Intercedere vuol dire: camminare tra. E quindi noi abbiamo un’idea della preghiera come intercessione, come supplica, che è la preghiera dei semplici. Tante volte, uno pensa che questo modo di pregare sia ignobile, da abbandonare ed invece ascolto questo gigante e mi ricredo. Dico forse no. Non saprei. In realtà, io penso che più che dire le preghiere, si debba essere preghiera. Essere! Per me la preghiera più matura, quella che mi viene meglio, è quella di stare in silenzio. Sia fatta la tua volontà. Che io diventi Tua volontà, ospitando il Bene, la Giustizia, la Bellezza, l’Armonia e che questo si possa estendere su tutti. Che tutti abbiano pace, che tutti abbiano quiete. 

Che è questo un modo di pregare molto orientale, che Paul Knitter propone al posto della nostra cristianissima preghiera verbosa, piena di bla bla bla…

Sì, sì, sono molto vicino a Knitter su questo. Gesù tra Marta e Maria preferisce Maria, quella che è lì e non dice nulla. C’è l’esicasmo che è una forma di preghiera cristiana. Non fate come i pagani che pensano di essere esauditi a parole!

Sa, professore, la nostra umanità mi par tanto come un povero trovatello, abbandonato alla ruota degli esposti, senza nessuna suorina ad accoglierlo e a dargli cura. Ce la siamo dovuti cavare da soli, in milioni di anni. Come ce la siamo cavata, secondo Lei?

Secondo me ce la siamo cavata benissimo. Ce la stiamo cavando benissimo, fin troppo bene. Cresciamo, cresciamo. Vedendo la civiltà che abbiamo messo in piedi, in mezzo a tanti dolori, a tante catastrofi. L’umanità non ha mai raggiunto standard di salute e di conoscenza più alti. 

Ma Lei che dice, professore: Dio ci ha piantati in asso? 

Ma dipende di che Dio stiamo parlando, ancora una volta.

Se un padre banalmente umano ha un tale amore per il figlio per cui non lo abbandonerebbe mai, persino un animale non abbandonerebbe un cucciolo prima di essere sicuro che sappia cavarsela da solo, possibile che Dio sia meno buono dell’uomo e meno buono del più greggio degli animali?

Lei è sicuro che Dio ci ha abbandonati?

Ci ha lasciati in autogestione, poi ce la siamo cavata bene, ma dopo milioni di anni e con un prezzo altissimo, di sangue, di dolore, di fatica, di ingiustizia…

Noi non sappiamo niente di questa potenza a cui ci rivolgiamo quando diciamo Dio. Non sappiamo se lui soffra, se patisca, Lui, Lei, Esso. Non lo sappiamo. L’idea della mistica ebraica, di un Dio che abbandona il mondo, perché per esserci il mondo, Dio deve ritrarsi… Lo Tzim-tzum a me non piace tanto, gli ebreihanno ragione perché non conoscono l’incarnazione, io invece mi associo ad una visione classica, orientale. Dio è presente in tutto, anche nel patimento degli esseri umani, c’è una divinità che si fa. Queste sue domande sono ancora impostate secondo il paradigma del teismo, che io ho superato. Non c’è un Dio di qua ed un mondo di là. C’è un unico processo, divino e umano al contempo che si va facendo, la cui origine chiamiamo Dio, il cui corpo centrale chiamiamo Mondo e Uomini, ma che si fa insieme. 

Fino a poco minuti fa, mi ha detto che si rivolge a Dio, che lo chiama Padre, come se fosse un’altra persona rispetto a Lei, e poi mi viene a dire che Dio – Mondo ed Uomo fanno parte di un unico processo. Non saprei come raccapezzarmi in questa risacca di contraddizioni. Si scivola, si cade, professore.​

È altro rispetto a me… E… La… (Balbetta). È il medesimo processo, di cui il divino è un polo e l’umanità è un altro polo ed il mondo naturale è un altro polo ancora. La cosmoteandrìa direbbe Raimon Panikkar. Dio è altro, ma non totalmente separato. Il cielo è cielo ed io sono terra, ma al contempo cielo e terra insieme creano questo processo, che è il divenire del mondo. Le cose del mondo sono impastate al cielo, le cose si attraggono a vicenda. Perché c’è questa inquietudine? È quella cosa che scrive Agostino nel primo libro delle Confessioni: ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in Te. Questo non vale solo per noi uomini, ma per tutte le cose. Tutto non è arrivato, però è fatto per arrivare. In questo alternarsi di arrivo e non arrivo sta il dramma dentro cui viviamo. 

E perché Dio ci ha fatti per Lui, ma ci ha tenuti a distanza? Perché avrebbe reso inquieto il nostro cuore? Perché non ha reso più semplice il complesso, già risolto il dilemma, già compiuto il processo, così che noi potessimo, sin da subito,dimorare presso di Lui, già paghi, già contenti, anziché inquieti? Da Dio uno non si aspetta che si comporti così!

Così come?

Come un sadico enigmista, professore, che sembra divertirsi a confondere, a rimandare, a nascondersi, a rendersi illeggibile.

Certo che non è semplice questo mondo. Diceva Bohr: ci sono due tipi di verità: le verità semplici, il cui opposto è un’evidente falsità e le verità profonde dove l’opposto è un’altra verità. Il mondo è una verità profonda, non è una verità semplice o semplicista. Hanno ragione i teisti o gli ateisti? Gli stoici o gli epicurei? Chi ha ragione? Hanno ragione questi e quelli, perché questo mondo è complicato. Capisco che Lei consideri la mia visione non così lineare, lo capisco benissimo, ma il mio è un tentativo di accettare il meglio di una tradizione, quella teista, secondo la quale il mondo non è Dio, ma c’è una trascendenza, ed il meglio di un’altra tradizione, quella panteista, che però non posso accettare del tutto. Quello che dice Spinoza, il panteista più coerente dell’epoca moderna io non lo accetto: vedere la realtà e vedere la perfezione è la stessa cosa, per realitatem et perfectionem idem intelligo. Io non riesco a pensarla così, se ci riuscissi, direi che sono panteista. Al contempo, però, non riesco a pensare che la realtà sia completamente distinta da Dio e che essa sia solamente caos. Questa modalità di pensare, che mette insieme queste due tradizioni è il panenteismo: Dio non è in tutto, ma tutto è in Dio. Mi sembra la visione più coerente che ho trovato. 

Se Dio è il fomite, la forza permeante del processo attraverso il quale si fanno tutte le cose, la creazione continua, l’evoluzione, che Lei dice è sempre tesa al meglio, come spiega il dolore innocente, la malformazione? Com’è possibile che questo processo ad un certo punto devii dalla forma originaria e produca anomalie?

Il valore del saggio a cui Lei allude, Il dolore innocente, è soprattutto nella parte negativa, cioè l’abbattimento del paradigma del dolore colpevole, del dolore rivelativo (se nascono così è perché devono mostrare qualcosa …), il dolore pedagogico (Dio permette queste cose per trarne un bene maggiore) e poi la quarta risposta, che cioè queste cose accadono perché non c’è alcun senso, alcun Dio. Come rispondo io? Rispondo che è un dolore necessario, funzionale al farsi del mondo. Questo mondo si fa in maniera libera e non necessaria e si fa andando avanti verso una sempre maggiore complessità ed una sempre maggiore organizzazione. Se noi ci siamo evoluti, se non siamo rimasti fermi ad un protozoo primordiale è perché ci sono stati degli errori di trascrizione. Quindi, il terreno lo guadagniamo, ma al prezzo di tanti che muoiono, che vengono abbattuti. Che altro Le devo dire. Se noi oggi ci possiamo guardare negli occhi e possiamo discutere su queste grandi domande è perché qualcuno è morto per farci guadagnare terreno. 

Una risposta… machiavellica.

Perché machiavellica?

Perché questa riflessione mi pare così crudele e cinica. Se io fossi un “errore di trascrizione”, ne sarei molto offeso. 

Capisco ed è vero, è vero: il fine non giustifica i mezzi. Però, vede, questa purtroppo è la risposta più coerente con i dati , dopo di che fosse toccato a me, avrei messo in piedi un meccanismo così? Chi lo sa. Si può produrre libertà e amore senza sofferenza? Si possono produrre esseri umani liberi senza sofferenza? È possibile il Bene senza il Male? Il bianco senza il nero? Noi abbiamo a che fare con due ipotesi, che rifiuto entrambe: la prima è la necessità. Tutto è necessario, previsto, pensato, l’idea del teismo classico, di un Dio che vede e provvede. La seconda, quella del niente, del nichilismo: non c’è nessun tipo di progetto, siamo in balia di un non-senso complessivo, dell’assurdo. Io non accetto né l’una, né l’altra ipotesi. Io penso che esista un senso e che questo senso non sia tale da essere sempre necessario, da imporsi sempre e comunque. Esiste la libertà, ma esiste anche la sensatezza e la libertà si compie nella misura in cui aderisce alla sensatezza. Obbedisce ad un senso più grande. Obbedienza e libertà. Ma lo fa in maniera creativa, non come una pecorella che deve andar sempre dritta sennò c’è il cane del pastore dietro che la morde. Lo fa in maniera creativa, perdendosi, a volte, ma, in quel perdersi, trova nuovi sentieri. Io penso che sia questo il senso dell’umana avventura. 

Professor Mancuso, parlando con Lei, alla fine si resta incerti, confusi, molto turbati. Si resta insoddisfatti dall’ingenuità delle vecchie risposte e dall’insufficienza delle nuove, tra queste ultime, anche le sue, non me ne voglia. Ciò che Winston Churchill scriveva dell’Unione Sovietica, io lo attribuirei a questo gigantesco, incoerente, meraviglioso mondo: un indovinello, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma. Forse, bisogna soltanto accettarlo così com’è, questo mondo, se si può riderci su e, al contempo, custodire nel proprio cuore il Grande Mistero, la sua gioia e il suo tormento. Grazie professore, Chazak ve’ematz!





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