Mimetiche

L'ultima opera di Eugenio Lucrezi

    di Max De Francesco

Grandezza di un breviario, tinta celestina, stile grafico essenziale, pagine avoriate disegni optical e font godibile: si presenta così l’ultima opera di Eugenio Lucrezi dal titolo “mimetiche”, che impreziosisce la collana di poesia contemporanea “i megamicri”, curata da Mariano Bàino, della Oedipus Edizioni. L’autore, medico e musicista, appartiene a quella genìa creativa che coltiva il talento dell’irrequietezza, adora rovistare in soffitte oniriche e rovinarsi, per dirla alla Flaiano, con buone letture. Avvertiamo, quindi, chi entra nella “no man’s land” di Lucrezi, che non sempre le pagine “attraversate” offrono terre e luoghi abitabili, poiché l’autore, innamorato di una scrittura “sfigurata e apolide”, ammalata di colti richiami poetici e musicali, non desidera aprirsi allo sfornito lettore, ma con estremi rimandi lo “rimanda” indietro, preferendo, invece, sfidare chi di letture e note ha lastricato ogni suo giorno, di chi la vita ha preferito leggerla, suonarla e raccontarla, più che viverla. Emergono così dalle lande lucreziane, in cui metamorfosi, miti sminuzzati e ludiche corrispondenze circolano vertiginosamente, i diavoli custodi Kafka, Ovidio e Properzio, il nume tutelare P.J. Harvey e il dimenticato e ostico scrittore-giocatore Tommaso Landolfi, che l’autore omaggia con una sorprendente “recensione in versi”, originale esercizio mimetico di critica letteraria dall’incipit superbo: “Landolfi è un cuore che batte sull’errore./Non lo confonde il lusso della lingua, /Spande un lessico strano che rimastica/Alimenti d’infanzia”. Chi decide di restare nella stazione di Lucrezi, tra petali malinconici, briciole d’intonaco e passi di lana, s’accorgerà che non vi saranno né arrivi né partenze, ma c’è una lucente sala d’attesa, tappezzata di tentativi di cover “perfette”, in cui stanno seduti o guardano fuori verso i binari muti, amori immensi e fantasmi dagli occhi che “restano e non resistono, portenti/ abilitati al bello, quello vero”. Gioca d’anticipo la poetica lucreziana perché non aspetta il passaggio della locomotiva ispirativa, ma smonta, rimonta e trasforma treni di parole, attraverso la mescolanza di più codici espressivi e una spinta sperimentazione sonora, alla ricerca, come ben scrive nella postfazione alla raccolta Massimiliano Manganelli, “di un testo capace di raggiungere l’equilibrio tra imitazione – nell’accezione retorica classica – e invenzione, nel doppio significato che al vocabolo attribuisce la lingua italiana, ossia di creazione originale e di reperimento di materiali già pronti. In questa sofisticata e a volte inabitabile “ricreazione”, così affollata di fughe barocche e alterazioni lessicali, il musicista Lucrezi non scrive versi ma li “esegue”, attingendo ombre, luci e suggestioni dal suo archivio mai scontato di primizie e sollecitazioni letterarie, rispettando uno suo personalissimo spartito mentale che prevede anche, come faceva Miles Davis, di suonare dando le spalle al pubblico. Chi esce dal viaggio lucreziano, non potrà fare a meno, dopo essersi scontrato con un elitario e spesso eccessivo gioco di “ruolo mimetico”, annotarsi nel suo diario notturno meravigliosi versi come quelli della poesia “Serata a casa”: “Tu pungi e sei soave,/sogni come la spiga/ che non si tiene il sole, e lo lascia/ nel giro sterminato. Nuvole/vanno e vengono, i punti/ non stanno fermi in alto”.  
 





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