Fallimento senza Parolo

Prandelli da profeta a pippa. L'illusione Balotelli

    di Max De Francesco

In un pomeriggio muto, in un Paese che insegue riforme e prosegue in chiacchiere, la brutale bellezza del calcio consegna, in casa Italia, la verità. Una verità brutale non per le vili zanne di Suarez ma per come ha mostrato pubblicamente, nella terre del “calcio di poesia” come Pasolini battezzava l’arte brasiliana del pallone, l’inconsistenza del nostro calcio in prosa. Senza campioni e senza ritmo non si vincono le partite né si scrivono romanzi di vittorie. Hai voglia di disegnare geometrie, chiudere linee di passaggio, affidarti al dai-vai, puntare sulle vie laterali, attaccare gli spazi, ripartire. Crolla ogni sistema di gioco se non hai una punta che ha fame di gol e di cognome non fa Immobile, ma Implacabile. Per non andare troppo indietro nel tempo, l’Italia di Bearzot trovò il miracolo Pablito, quella sfortunata di Vicini il killer Schillaci, la prosa calcistica sacchiana si affidò al talento formidabile di Baggio, la narrativa di Lippi poteva contare su un manipolo di prosatori cazzuti come Pirlo, Del Piero, Totti, Inzaghi, Gilardino, Toni e su una difesa perfetta con al centro il pallone d’oro Cannavaro e i determinanti Zambrotta e Grosso. Abbiamo vinto mondiali, sfiorato altri trionfi, perché avevano altri calciatori. Con la banda Cavani, Prandelli, confuso e avvilito, ha iniziato il secondo tempo levando l’ammonito Balotelli, goleador di twitter e imbattibile bimbominchia, e inserendo Parolo, discreto calciatore ma non certo scattante come un Cerci o un Candreva che avrebbero potuto infastidire l’Uruguay fino a quel momento piccolo e balbettante.

Sacrosanta verità, spesso ripetuta da allenatori e atleti dopo incontri equilibrati, è quella che gli episodi determinano le partite: l’espulsione di Marchisio, la mancata chiusura di Suarez in una gabbia di pitbull, i crampi maledetti di Verratti, l’arbitraggio vergognoso, il colpo di spalla di Godin che, anche un bambino nella culla sa che è pericoloso di testa e va marcato come Gentile fece con Zico e Maradona. Tutto vero, ma la grandezza di un team si misura dalla capacità di essere pronto e addestrato a superare gli episodi, anche se si deve giocare in 10 e manca un’eternità al fischio finale, anche se si prende gol a 10 minuti dalla fine e nessuno ci crede più. La testa di Prandelli, e di conseguenza la sua formazione-proiezione, è sembrata non essere allenata all’imprevisto, al cambiamento, alla scelta salvifica, ed è scesa in campo producendo una prosaccia priva di speranze, qua e là illuminata dai momenti individualistici e poetici dei vecchietti, pluridecorati e meravigliosi, Buffon e Pirlo, gli ultimi a deporre le scarpette dopo aver assistito alla triste caduta dei giovanotti, spuntati e invisibili, generazione di normali colpitori di pallone, già ricchi e arrivati, viziati dal sistema calcio che ne corrompe cuore e cervello, per poi condannarli quando si pisciano sotto davanti alla porta o sbattono contro un muro con l’ultima Ferrari.

A partita finita, a dimissioni lanciate nella cagnara mediatica della caccia al mister e al mistero Balo, Prandelli ha concluso la sua carriera azzurra con zero tituli, un entusiasmante secondo posto agli Europei 2012 - toppò però la finale con la Spagna, puntando su giocatori ormai scoppiati - un buon terzo posto alla Confederations Cup 2013, non riuscendo, se non a tratti, a rivoluzionare lo stile Italia: più gioco, meno attesa. Gli infortuni di Rossi, Montolivo ed El Shaarawy, l’evanescenza di Osvaldo, la scelta di non convocare Florenzi, Destro e una punta esperta come Toni, l’illusione Balotelli, lo hanno trasformato da profeta a pippa. Il suo fallimento è stato soprattutto quello di non aver saputo miscelare, in campo e fuori, senatori e giovani marmotte, di non aver mai dato la sensazione di credere davvero alla sua squadra, cambiandone ossessivamente forma convinto di toccare così la sostanza. A condire il tracollo, poi, sono state le sue parole, di solito molto ponderate, nello scaricare definitivamente Balo, confermando che il ragazzo, pur fornito di fisico e colpi micidiali, non ha durata psicologica né palle da campione. Avrà tempo, il futuro marito di Fanny, di smentirci insultandoci di gol, ma il prossimo commissario tecnico italiano dovrà avere l’intelligenza e l’intuizione di non convocarlo, di lasciarlo maturare fuori squadra, di progettare un’Italia poetica senza l’inutile metafora Mario. Le troppe attese finiscono per azzerare le poche certezze e consegnarci quei disarmati e disarmanti 10 minuti finali contro l’Uruguay, un assalto di cuore senza punte, senza denti, senza stile. Un fallimento senza Parolo.     





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