La vida es una tombola

Estragone e gli indomabili lupi di Rastelli

    di Max De Francesco

Il calcio che conta è in Serie B. Almeno il 2 giugno 2015, giorno delle dimissioni del maneggione Blatter, che con il pallone marcio era un top player. Le fanfare nelle piazze d’Italia suonavano Mameli per la festa della Repubblica, le analisi del voto delle elezioni regionali tenevano impegnati i bagnanti, cotti dal primo sole che smonta la primavera e installa i motori dell’estate. Il 2 giugno 2015, giornata senza più campionati d’oro, priva di fantacalcio, gran premi, Ferrari, Ducati e Mortirolo, offriva un palinsesto cadetto con le semifinali playoff per la conquista della Serie A. Ore 18.30: Bologna-Avellino; ore 20.45: Vicenza-Pescara. Squadre blasonate, passati gloriosi, tifoserie storiche. I malati del pallone sano, di quello che ancora alimenta sogni e crea palpiti, in un pomeriggio postelettorale ricolmo di ricorsi, querele, impresentabili, vincitori e vinti, avevano poca scelta: due campi, due sfide, due ritorni, due pronostici scontati. Soprattutto quello della prima partita: il Bologna, dopo la vittoria in Irpinia per 1 a 0, aveva due risultati su tre per andare in finale playoff. Anzi, per un regolamento fortemente penalizzante per l’Avellino, la squadra governata da Delio Rossi poteva permettersi anche di perdere la partita con un gol di scarto. Al Dall’Ara il pubblico lo sapeva. Sugli spalti, prima del fischio d’inizio, la festa era già cominciata nella vipperia rossoblu. I lupi di Rastelli, reduci da tre partite in dieci giorni, con una rosa ridotta per squalifiche e infortuni, erano destinati, secondo opinionisti e pubblico pagante, a una dignitosa resa. Erano. Il calcio che conta è in Serie B tra calciatori incompiuti, ventenni affamati, mister grandiosi senza “tituli”, centrocampisti all’ultimo giro, eroi di nicchia tutto cuore e acciaio, mai in A perché la giostra della vita così ha deciso.

Quel 2 giugno i lupi di Rastelli, appena la palla cominciò a rotolare, azzannarono “il prevedibile”. I giocatori dell’Avellino, fin dal primo minuto, iniziarono a scrivere nel grande libro dell’epica calcistica quanto segue: “Sarà il destino a decidere, ma fino alla fine saremo noi a comandare”. Quando lo sport diventa mito anche una partita dimenticata, piazzata in una giornata di celebrazioni e fughe al mare, sa conquistarsi un posto nella storia del calcio. Non c’era partita: l’Avellino dominava al Dall’Ara: presidio intelligente delle fasce, pressing senza tregua a centrocampo, ricerca costante delle punte, Trotta, Zito, Konè e Arini in stato di grazia. I rossoblu non se l’aspettavano. Lo stadio era incredulo, i tremila tifosi irpini, instancabili coristi, stringevano sciarpette. Senza una botta di culo non c’è impresa possibile. Prendete i lupi: due volte in vantaggio e due volte ripresi come quei videogiochi in cui quando perdi una vita, ti rimandano al primo quadro. Sul 2 a 2, dopo la rete del rossoblu Cacia nata da un infortunio del portiere Frattali, lo stadio riacquistava colore e blasone: ormai è fatta, diceva il bolognese. Ormai è tardi, diceva l’avellinese. Non per Rastelli, non per i suoi soldati. Il 2 giugno 2015 mancava uno schiaffo di minuti alla sentenza. Lo stoico Zito s’infortunava e con gli occhi ancora furenti usciva dal campo per far posto al malconcio Castaldo, capocannoniere biancoverde all’esordio nella lotteria dei playoff dopo essere stato fermo per un fastidioso problema alla pianta del piede destro. L’Avellino non mollava. Rilanciava, aggrediva, rischiava. Al minuto 83, un pallone vagante nell’area di rigore dei rossoblu finiva sui piedi di Konè. Tiro a volo, imparabile alla destra dell’immobile da Costa. Palla a centro e speranza in campo. 3 a 2. Un altro gol, serviva un altro gol. Il Dall’Ara ripiombava nel silenzio, gli irpini cantavano e non avevano più nulla da stringere.

Non era scritto nelle pagine del romanzo calcistico di quest’anno che i lupi di Rastelli giocassero la finale playoff. Potevano mai saperlo? Dovevano fermare la palla e aspettare l’esecuzione? Cedere alla fatica e dosare cuore e gambe tanto il capitolo sconfitta era già stato visto e corretto dagli dei del pallone? Al minuto 93, il “già deciso” dirottava il magnifico tiro di Castaldo sulla traversa. Un destro volante, da posizione decentrata, carico di aspettative e di risalite, un tiro dalla calibrata potenza, la palla colpita più con l’anima che con il piede, un brivido, un’occhiata alla traiettoria, un onirico sussulto. “Niente da fare” era scolpito sulla traversa, come le parole di Estragone che aprono Aspettando Godot. Giù il sipario, serviva un altro gol, ma non era scritto da nessuna parte. 27 anni fa, nell’ultima partita dell’Avellino in Serie A fu una traversa, colpita da un illuminante Bertoni, a condannare gli irpini alla retrocessione. Il marchio indomabile del fato orientò la parabola e condannò i lupi di Bersellini. Era il 15 maggio 1988, stadio Meazza: applausi, lacrime e testa alta anche quel giorno. La partita dei guerrieri di Rastelli è come si mette a volte la vita: provi, riprovi, ma non riesci a farcela. Cadi, ricadi, ti rialzi, ma non sempre basta. Fatichi, lotti, ti danni, ma per un episodio sei costretto a ricominciare da zero. A ripartire dal primo quadro. È in queste ripartenze che si forgiano gli uomini, s'impara a stare in campo. Prima del “niente da fare”, però, c’è un’emozione da vivere, un assalto da riproporre, una speranza da coltivare. Prima che il finale di partita arrivi, risparmiarsi significa non onorare se stessi, non volersi bene. Non rispettare gli altri. Era il 2 giugno 2015, era la sfida Bologna-Avellino. Pochi se ne ricorderanno: noi, vivaddio, l’abbiamo già custodita nel libro delle imprese sfiorate, delle sconfitte da narrare a chi desidera innamorarsi del calcio che conta. Poi se la vita è una lotteria e le traverse arrestano i sogni siamo tutti come Castaldo e i lupi danzanti di mister Rastelli. Hai ragione Manu Chao quando vibri la chitarra e canti a Maradona che la vida es una tombola de noche y de dia.





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